Seduta n. 307 del 09/09/2014
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sull’informativa del Ministro dell’interno.
È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.
MARAN (SCpI). Signor Presidente, onorevoli colleghi, il Ministro dell’interno, che ringrazio, ha svolto una relazione articolata che cerca di fare il punto su tutti i fronti aperti che possono mettere a rischio l’Italia: dalle minacce lanciate dallo Stato Islamico a tutto il mondo occidentale, fino ai luoghi di rischio in cui è più forte la presenza italiana, a cominciare dalla Libia. Il senso del suo messaggio – in soldoni – è questo: l’allerta è massima, ma al momento non ci sono rischi imminenti. Effettivamente, le Forze dell’ordine si stanno muovendo su una linea di grande attenzione.
Eppure, ricordo che non molti anni fa (era il 2003) il documento sulla Strategia di sicurezza europea iniziava con la seguente frase: «L’Europa non è mai stata tanto prospera, sicura e libera». Da allora le percezioni sono molto cambiate. Oggi il mondo sembra in fiamme ed è lo stesso assetto di sicurezza in Europa che appare in pericolo: un ulteriore aggravamento della crisi ucraina potrebbe avere un effetto fortemente destabilizzante, mettendo a rischio alcuni capisaldi del sistema di sicurezza post guerra fredda (regime di controllo degli armamenti, dialogo e concertazione con Mosca attraverso il consiglio NATO-Russia, il ruolo dell’OSCE nel campo della sicurezza e dei diritti umani, eccetera). Inoltre, l’istituzione dell’autoproclamato califfato da parte del gruppo jihadista dello Stato Islamico ha ulteriormente destabilizzato il Vicino Oriente, riportando l’attenzione internazionale sul fenomeno del radicalismo islamico, tanto che tutta la comunità internazionale, l’Occidente, s’interroga su come si possa fermare questa minaccia, su come sia possibile per la comunità internazionale contrastare questo fenomeno e quali rischi presenti per l’Occidente, anche alla luce dei casi sempre più frequenti di jihadisti europei.
Le affermazioni dei rappresentanti dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia, secondo cui da noi il problema sarebbe del tutto marginale se non quasi inesistente, sono state rapidamente contraddette da quanto continua ad emergere circa l’esistenza di reti di collegamento in varie parti del Paese; che ci si sia poi tutti accorti in ritardo del diffondersi di un fenomeno che cresceva sotto i nostri occhi è fuori dubbio, così come è indubbio che ci siamo trovati impreparati per tentare di decifrare le ragioni che hanno indotto una quota non irrilevante di cittadini europei a rispondere ad un appello che nega alla radice i principi di tolleranza cui dichiarano di ispirarsi le nostre società.
Da un lato si pone un problema di prevenzione (ne ha parlato il Ministro), dall’altro c’è l’esigenza di approfondire l’analisi del fenomeno, la conoscenza dei meccanismi mentali e delle reti di collegamento e c’è l’esigenza di farlo superando steccati e diffidenze, riconoscendo che la minaccia della jihad non può essere affrontata in una mera ottica nazionale, che del resto è antitetica allo stesso messaggio della jihad.
C’è un problema – lo affronto in maniera molto schematica – che riguarda più in generale l’approccio di politica estera, perché in Occidente prevale non soltanto l’inquietudine, ma anche una certa insoddisfazione verso le esitazioni; insomma, vi è il senso che occorre intervenire, fare qualcosa. C’è chi propone di organizzare un intervento multinazionale ma a questo riguardo vanno dette le cose come stanno: perché un’iniziativa del genere abbia una qualche speranza di fattibilità, sarebbe necessaria una qualche compattezza politica dei Paesi del Medio Oriente e l’adesione della Russia. Entrambe queste condizioni sono più parte del problema che della sua soluzione. Occorre quindi fare un’altra cosa: tenere i nervi a posto e sostenere la dottrina di Obama contro il terrorismo: appoggi politico-militari ove possibile e pressioni diplomatiche affinché si rafforzino quei Paesi (pochi) come l’Iraq che, a differenza del regime siriano, hanno qualche orizzonte democratico. Più a lungo termine, vanno ricostruite le condizioni politico-diplomatiche perché venga meno la paralisi attuale; sarà opportuno ritrovare un rapporto funzionale dell’Occidente con la Russia e revisionare, per così dire, l’alleanza in Medio Oriente premiando l’aggregazione nazionale su quella settaria e la modernizzazione democratica sull’autoritarismo. Sono prospettive – occorre riconoscerlo – molto lontane, ma bisogna cominciare convincendoci una volta per tutte che il fardello dell’Occidente è un’idea morta per sempre. Non è un mistero per nessuno che il vecchio ordine mondiale, nato dalle macerie della Seconda guerra mondiale, rischia di crollare; molte cose stanno cambiando rapidamente e possono determinare la transizione verso un diverso assetto o verso un disordine planetario sconosciuto dagli anni Trenta.
Se dovessi dire quella che a me sembra la cosa più importante è che l’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo allo stesso tempo da locomotiva economica e da garante per la sicurezza militare. Non è un caso che un analista come Mandelbaum l’ha definita ormai una Frugal Superpower, senza contare che proprio i deficit crescenti di quel Paese, alimentati dai costi enormi della crisi finanziaria e dai programmi di protezione sociale, obbligheranno comunque l’America ad una presenza internazionale più modesta. Gran parte del nostro futuro si gioca attorno ad una domanda che non è più eludibile (gli alleati dell’America possono portare un po’ più di questo peso, sì o no?) e si gioca attorno alla questione fondamentale della riforma dello strumento militare, perché in gioco per l’Italia non è soltanto la sua efficienza, ma anche la sopravvivenza della capacità operativa delle Forze armate, ovvero della possibilità per l’Italia di condurre o partecipare a missioni funzionali alla propria politica estera e di difesa e, in ultima analisi, alla promozione e alla protezione dei propri interessi nazionali.
In una nota recente l’Istituto di affari internazionali si è soffermato su una locuzione, che, come poi ha precisato, non ha e non contiene nessun doppio senso. La locuzione è: «la politica estera del sedere». Tale locuzione – dice lo IAI – è da intendersi in modo strettamente etimologico: politica alla ricerca di seggi dove sedersi, senza però sapere cosa farci una volta utilizzati. Questa, non da oggi, è stata per decenni una delle caratteristiche della politica estera dell’Italia e se l’Istituto di affari internazionali si occupa di questo oggi è perché ha fatto circolare un rapporto sulla politica estera italiana che si intitola: «Scegliere per contare». Infatti, è venuto il momento, anche per il nostro Paese, di scegliere.
Non a caso questo rapporto è uscito in parallelo con l’inizio del nostro semestre di Presidenza, perché in questo quadro una media potenza come la nostra, se vuole e se ne è capace, può indicare le priorità per la politica estera europea, che sono per noi vitali, a cominciare da un percorso credibile verso l’adesione all’Unione degli Stati dei Balcani occidentali, fino al rilancio della cooperazione transatlantica, attraverso iniziative come l’accordo di libero scambio. Può altresì indicare e battersi per due obiettivi strategici prioritari per l’Italia: la necessità di rispondere alle sfide di sicurezza nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e di approfondire le prospettive di partenariato nell’Africa subsahariana. Si tratta di scelte ineccepibili per un Paese come il nostro, di medie dimensioni e che vive ormai quattro anni di crisi economica. Esse hanno un obiettivo che può sembrare limitato, ma che è invece ambizioso: preservare il ruolo dell’Italia nel quadro globale, nonostante più limitate risorse e, dunque, preservare le proprie condizioni di sicurezza. Si tratta però di scelte che cozzano contro la tradizionale politica del restare seduti. Sono fiducioso che per il nostro Governo – ne sono convinto – sia venuto il momento di fare delle scelte per garantire sicurezza e prospettive al nostro Paese e sono fiducioso che il Governo sarà in grado di farle con il sostegno della maggioranza. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Marino Luigi e Susta).