Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 277 del 14/07/2014
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.
MARAN (SCpI). Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’obiettivo dichiarato della riforma è quello di offrire una soluzione alle criticità e alle disfunzioni del nostro sistema istituzionale. La riforma perciò si propone di superare il bicameralismo perfetto, limitare il rapporto di fiducia alla Camera e fare della seconda Camera l’organo di rappresentanza delle autonomie: un obiettivo, quello della regionalizzazione del Senato, di cui si discute da almeno vent’anni.
Nella maggior parte dei casi, le critiche di principio all’impianto (che abbiamo ascoltato anche oggi) ripropongono le vecchie anomalie nazionali, e ne propongono di nuove, e sono per lo più il frutto di un antistorico «complesso del tiranno». È appena il caso di sottolineare, infatti, che fu voluto dall’Assemblea costituente un sistema di Governo debole, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo. Un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa che non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Un relitto di quando – come ricordava Scoppola – ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro. Non a caso tutte le volte che viene posto all’ordine del giorno il tema delle riforme costituzionali in modo da dare ai Governi italiani quella stessa forza istituzionale che hanno i governi in tutte le altre democrazie europee, si torna a parlare di svolta autoritaria o si tira fuori la P2.
Da quando in Italia si discute di riforme istituzionali, più o meno dalla fine degli anni Settanta, cioè dall’inizio della crisi della rappresentanza delle forme politiche tradizionali (la Commissione Bozzi, infatti, è stata istituita nel 1983), la questione di fondo è sempre la stessa: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare normale, oppure no? Vale a dire: può diventare una democrazia nella quale chi vince le elezioni può attuare il suo programma dentro un quadro di garanzie fornite soprattutto dalla Corte costituzionale e nella quale la valorizzazione dell’autonomia avviene senza conflittualità paralizzanti tra centro e periferia?
Il nodo politico della riforma del bicameralismo sta tutto qui. Come sempre il discrimine, lo spartiacque è tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi economica o dalla necessità di adeguare il nostro sistema istituzionale (poco importa) per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile perché – manco a parlarne – «l’Italia è diversa» e «perché in Italia queste cose non si possono fare».
Negli altri Paesi chi vince le elezioni nella prima Camera governa e le garanzie che non travalichi i limiti posti dalla Costituzione sono date dall’organo di giustizia costituzionale e non da un Senato pensato per fare, in modo del tutto anomalo, da contraltare al Governo. Negli altri Paesi le seconde Camere che non danno la fiducia e dove il Governo non può porre la fiducia hanno un potere paritario solo su leggi costituzionali e poco altro perché non devono impedire la governabilità. Negli altri Paesi anche la materia dello sviluppo dei diritti garantiti dalla Costituzione vede prevalere ovunque la prima Camera (naturalmente, sotto i vincoli posti dalle Corti) perché quasi tutta la legislazione chiave varata dai Parlamenti tocca infatti i diritti ed è compresa nelle piattaforme con cui ci si candida per il governo del Paese.
Per prima cosa, allora, ci si deve chiedere qual è la ragion d’essere di una seconda Camera oggi? Anche perché se non si trova una ragione convincente il Senato sarebbe meglio abolirlo del tutto. Del resto, l’ipotesi di una pura e semplice abolizione del Senato non si vede quali controindicazioni avrebbe, specie se l’obiettivo dovesse essere soltanto quello di risparmiare.
A mio giudizio non ha alcun senso politico e istituzionale ipotizzare che la seconda Camera debba avere una sua giustificazione in un ruolo politico di contrappeso rispetto alla prima sia esplicito (mantenendo un doppio rapporto fiduciario), sia implicito (allargando l’area delle leggi bicamerali paritarie in modo irragionevole e così via). In questo modo non rappresenterebbe le autonomie ma sarebbe un doppione peggiorato della Camera perché l’unica garanzia certa sarebbe quella di minare la governabilità portando ad una grande coalizione di fatto con i principali Gruppi parlamentari del Senato, anche quelli che fossero risultati perdenti alla Camera.
Non sfugge a nessuno che un Senato privo del rapporto fiduciario, ma anche libero dalla questione di fiducia, dove il Governo non può porre la fiducia, avrebbe potuto, potrebbe, paralizzare il Governo e la maggioranza in modo del tutto anomalo rispetto alle democrazie parlamentari europee.
Del resto, in cosa dovrebbe consistere la garanzia, specie se si considera che si tratta di un’esigenza che l’ordinamento affida già alla Corte costituzionale, oltre che al Presidente della Repubblica, in misura crescente in questi anni?
I diritti costituzionali devono essere tutelati dalla Corte, casomai prevedendo il ricorso preventivo davanti ad essa da parte di minoranze parlamentari. Ma se la Costituzione non è violata siamo di fronte a scelte di cui si deve assumere la responsabilità la maggioranza parlamentare, come avviene in tutti i Paesi europei.
Per come la vedo io, la ragione fondamentale di una seconda Camera è di essere il luogo di raccordo con i territori completando e correggendo il disegno iniziato con la riforma del Titolo V.
Fuori da questo schema non si giustifica nessuna seconda Camera. Anzi, l’urgenza della riforma è giustificata proprio dalla necessità di creare istituzioni in cui le Regioni e gli enti locali siano chiamati a collaborare alla definizione delle politiche pubbliche in modo da evitare che le leggi dello Stato cerchino di imporre scelte unilaterali a soggetti che poi saranno chiamati ad applicarle e che esprimeranno fatalmente il loro dissenso alimentando il contenzioso davanti alla Corte costituzionale. C’è chi sostiene che una riforma «copiata» dal modello tedesco o da quello americano, nati in altre culture e in differenti circostanze storiche, male si attagli alla nostra situazione. Ed è vero che dopo anni di mancate promesse oggi il federalismo, cioè la domanda di autonomia e di riforme costituzionali, non gode di grandissime popolarità e sembra diventato un problema.
Ma non sarebbe male tenere a mente che, per dirla con Ilvo Diamanti, quella di nuove regole e nuove istituzioni è una strada «imposta da emergenze e fratture» che abbiamo scelto proprio per sanare il contrasto tra società e Stato, il contrasto tra società e politica; un contrasto che non è risolto per il fatto che ora di marce sul Po non se ne fanno più e i giornali hanno smesso di parlare del Veneto come se fosse l’Ulster. Non foss’altro perché una delle componenti del pensiero federalista è sempre stata la ricerca di spazi di autonomia e di libertà per i cittadini, proprio attraverso forme di contenimento e di distribuzione articolata del potere pubblico.
Non c’è alcun indice preciso che consenta di distinguere un sistema federale da un sistema regionale: entrambi cercano di combinare una certa misura di unità con una certa misura di diversità. La distinzione guarda essenzialmente al passato, al modo in cui il sistema, lo Stato, si è formato ed i sistemi regionali sono il frutto di un processo di decentramento delle funzioni di uno Stato centralizzato, così l’Italia ma così anche la Spagna, la Francia e perfino il Regno Unito, perché dovunque le sollecitazioni sono state più o meno le stesse e di fronte ai grandi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi settant’anni nell’organizzazione e nella stessa funzione dello Stato, più o meno gli stessi sono stati i problemi che i sistemi di relazione centro-periferia hanno dovuto affrontare e più o meno le stesse sono anche state le risposte che si è cercato di elaborare.
Resta il fatto, comunque la si veda, che la nostra Repubblica non è più quella di prima, è già cambiata e oggi risulta incompiuta, a metà. Comunque la si consideri, la riforma del Titolo V, che Augusto Barbera ha definito «sgangherata», voluta dal centrosinistra al termine della legislatura sotto il secondo Governo di Giuliano Amato e confermata dal voto popolare nel referendum del 7 ottobre 2001, ha apportato alla Parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, modifiche profondissime ed è da qui che bisogna partire.
Che il Titolo V presenti difetti di funzionamento è opinione condivisa. Il primo punto critico sta proprio nell’eccessiva fede riposta nel riparto per materie. L’ordinamento e le sue leggi non si prestano ad essere incasellate in apposite materie e in ogni caso la predeterminazione delle materie non può essere esaustiva: emergeranno materie sempre nuove e sempre nuovi saranno gli intrecci tra una e l’altra materia. La linea di confine è incerta per definizione, ma la mobilità di per sé non è un male, dato che tutti gli ordinamenti federali moderni o i sistemi regionali propendono per un riparto flessibile delle competenze e per un gioco sottile di interferenze. Questa mobilità diventa ed è diventata nel nostro caso un problema molto difficile da risolvere, quando mancano gli strumenti del coordinamento, in particolare quando manca un ramo del Parlamento che possa assumere un ruolo di mediazione e di assorbimento dei conflitti tra Stato e autonomie.
La mancanza del luogo parlamentare di mediazione è il secondo e principale punto critico della riforma, senza contare che in carenza di una stanza di compensazione istituzionale degli interessi, l’incertezza ha generato numerosissimi conflitti che sono devoluti alla Corte costituzionale, la quale si è trovata costretta a dirimere questioni che hanno un alto tasso di opinabilità interpretativa e dunque un alto tasso di politicità, il che non favorisce la composizione degli interessi ma ha incoraggiato l’emersione del conflitto e la giurisdizionalizzazione dei rapporti tra interessi centrali e interessi del territorio. Insomma, questa metamorfosi della politica in contenzioso giuridico ha imposto alla Corte – tanto per capirci e come ha sottolineato il suo Presidente – un ruolo di supplenza non richiesto e non gradito.
Dunque, posto che l’attuale bicameralismo è insostenibile la domanda è molto semplice: si vuole aggiustare e rivedere la riforma del Titolo V, come è necessario e urgente, o si ritiene invece che quella riforma vada azzerata per ritornare allo status quo precedente? Questa è la scelta che dobbiamo fare.
A me pare che quello di tornare indietro sia un obiettivo irrealistico, oltre che poco condivisibile. Basterebbe chiedersi: se buona parte dell’attuazione amministrativa delle leggi grava sulle Regioni e sul governo locale, come si fa a governare contro o anche senza il sistema delle autonomie?
Non solo, ma dall’azione delle Regioni e dei Comuni dipende larga parte dell’erogazione dei servizi sociali, l’attuazione delle leggi e delle politiche statali, la spesa pubblica. Porre il centro del coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori all’interno delle istituzioni costituzionali è oggi una necessità imprescindibile per il buon funzionamento del sistema costituzionale. Ma se davvero abbiamo cambiato idea, se pensiamo davvero che non c’è modo di far funzionare le Regioni, se pensiamo che queste siano diventate, come ho letto, il ricettacolo della corruzione, il luogo della collusione tra interessi privati e casta politica, se riteniamo che la riforma sia un regalo al malaffare delle caste locali, allora sarebbe meglio abolire del tutto il Senato e ricentralizzare.
Se invece vogliamo dare un ruolo effettivo a una seconda Camera, che non dispone più del voto di fiducia, la soluzione migliore è quella che assegna al nuovo Senato un ruolo sì circoscritto, ma incisivo nel procedimento legislativo, sulla base di un’esigenza reale di completamento della riforma del Titolo V. Anche perché il Titolo V – sia pure scritto, riscritto e un’altra volta riscritto – funziona solo se ha come terminale una Camera in cui sono responsabilizzati i legislatori regionali. Dunque, se vogliamo mantenere l’impianto del Titolo V bisogna fare una Camera regionale. Come? Naturalmente, si può fare in molto modi, come sempre. Cominciamo però con il dire che quella dell’ elettività diretta della seconda Camera non è affatto una regola, ma è tutto l’opposto. Ciò non avviene in Germania, né in Austria, non succede in Francia, per non parlare del Regno Unito o del Canada: posso fare un elenco di seconde Camere. Trovo personalmente che il modello più sensato sia quello del federalismo tedesco, nel quale la seconda Camera, il Bundesrat, non è elettiva, ma è formata da rappresentanti dei Governi regionali, perché la legge fondamentale precisa che tanto i partiti, attraverso i loro parlamentari al Bundestag, quanto i Länder – le Regioni – grazie ai componenti degli esecutivi regionali, collaborano – il vocabolo tedesco usato è emblematico: mitwirken, ovvero lavorano insieme – alla realizzazione della politica tedesca a livello federale.
La funzione che deve rivestire il Senato, in un assetto propriamente federale o regionale è chiara: non solo Camera di riflessione rispetto alle deliberazioni assunte nel primo ramo del Parlamento, ma soprattutto luogo di rappresentanza, nel processo decisionale della federazione, del sistema regionale, degli enti territoriali che la compongono. Non è un caso infatti che in Germania la seconda Camera non sia organizzata in Gruppi parlamentari, come l’altra – il Bunderstag – e che di norma nella sue Commissioni prevalgano gli orientamenti più tecnici su quelli politici, perché se vogliamo mantenere un assetto regionale – ovvero se vogliamo finalmente farlo diventare regionale – dobbiamo fare il Bundesrat o qualcosa che gli somigli moltissimo, perché bisogna evitare di riproporre anche nella seconda Camera le stesse contrapposizioni che dipendono dall’influenza delle appartenenze politiche, che caratterizzano la quotidianità del ramo direttamente elettivo del Parlamento, finendo così per snaturare il Senato in un improprio strumento di opposizione alla linea politica della maggioranza parlamentare, più probabile nella eventualità in cui l’orientamento politico prevalente nella seconda Camera risulti di segno diverso da quello rappresentato nella prima. È questo quello che i tedeschi cercano di evitare, perché a farne le spese sarebbe tutto l’assetto regionalistico dell’organizzazione statuale.
Prendo atto del fatto che il testo uscito dalla Commissione, che prende invece la strada della differenziazione sul modello del Bundesrat austriaco, si discosta per alcuni aspetti dalla mia impostazione e ritengo che il testo andrebbe modificato, andando il più possibile nella direzione che ho cercato di illustrare. Anzitutto considero sconveniente il mantenimento dei senatori a vita: ritengo che il Senato debbo rappresentare gli interessi territoriali e nient’altro. Inoltre sarebbe preferibile, per ciò che riguarda il meccanismo di voto, adottare come nel Bundesrat il voto unitario per delegazione regionale, come metodo ordinario. Ogni Regione decide come votare nell’Assemblea ed esprime i suoi voti in modo unitario, il che significa che il voto della Regione è dichiarato a pacchetto da un unico portavoce, scelto di volta in volta dai diversi rappresentarsi, secondo quel modello, che poi in linea di principio non è dissimile da quello del Consiglio dell’Unione: non è che si inventa nulla.
Ovviamente, se tutti i componenti del Senato delle Autonomie, in questo caso dei territori e delle Regioni, rappresentano appunto i territori e se non sono eletti direttamente come senatori, a mio modo di vedere non ha senso vietare il vincolo di mandato. Mi sembra anche inopportuno mantenente le città metropolitane tra gli enti che costituiscono la Repubblica e citarle poi, di seguito, accanto ai Comuni e alle Regioni. Mi sembra fuori luogo porre un ente non necessario, quale sarebbero le città metropolitane, sulla stessa linea degli enti necessari. Già con le Province si è dovuto fare marcia indietro e converrebbe imparare la lezione. Cerco di definire rapidamente due punti ancora. Molte delle innovazioni introdotte nell’articolo 117 della Costituzione sono in larga parte già consolidate dalla sentenza della Corte costituzionale, per cui i trasferimenti di competenza a favore della potestà esclusiva dello Stato e l’introduzione della clausola di supremazia non cambiano il quadro attuale, se non nel senso dell’assestamento di quanto la Corte costituzionale ha già elaborato.
Finalmente però l’introduzione di una Camera regionale, come era sottolineato nella relazione al disegno di legge, e la sua associazione nella formazione delle leggi consentono di disancorare il sistema di ripartizione delle competenze dalla rigida enumerazione delle materie, tecnica che ha dimostrato tutta la sua inefficacia. Il difetto più rilevante è l’assenza di una disciplina delle procedure collaborative, perché passare dal contenzioso alla collaborazione richiede qualche congegno procedurale che serva a questo obiettivo. Negli emendamenti accenno anche a un’altra proposta che da sempre affascina la dottrina, cioè l’introduzione nel nostro ordinamento delle leggi organiche, in modo speciale per quanto riguarda la legge elettorale, quindi una fonte normativa che vada a collocarsi tra la Costituzione e le leggi ordinarie, come accade in Francia e in Spagna.
Concludendo, signor Presidente, la mia impressione è che le critiche di principio all’impianto della riforma nascano da un modo nostalgico di atteggiarsi di fronte al tema; si prende atto che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma si ritiene che quella forma specifica di partecipazione alla politica, quello specifico sistema politico-istituzionale siano i migliori e quindi si cerca di avvicinarsi il più possibile a quel modello, di salvare più elementi possibili di quella esperienza, ma questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice e la nostra inazione, il nostro spirito di conservazione potrebbero infatti nuocere al rafforzamento delle istituzioni democratiche, concorrendo al loro indebolimento. Ne abbiamo fatto un feticcio, ma la Costituzione non può essere un totem da venerare; deve essere uno strumento vivo, operante, capace di assicurare coesione e di regolare il pieno svolgimento della vita democratica. Per capirci, dal dopoguerra fino al 2002 la Germania ha modificato ben 51 volte la legge fondamentale e la riforma del 2006, proprio quella diretta al miglioramento della capacità decisionale della federazione dei Länder, ha modificato altri 25 articoli della legge fondamentale e se i tedeschi per assestare il loro sistema federale (e sono tedeschi) sono intervenuti più di 50 volte, evidentemente noi che siamo italiani saremo costretti a intervenire, ad aggiustare e a rimetterci mano più e più volte ed è normale la manutenzione ordinaria di un assetto innovativo come quello che abbiamo avviato con la riforma regionale.
Se in Aula riusciremo a riaprire anche la questione dell’estensione del collegio degli elettori presidenziali, il lavoro risulterà notevolmente migliorato; anche così però possiamo dire che gran parte delle anomalie del bicameralismo italiano, dovute ai condizionamenti della guerra fredda nel processo costituente originario, che ci hanno obbligato a scartare soluzioni analoghe a questa (leggete appunto il dibattito di allora) sono sulla via del tramonto, stanno per scomparire con almeno 30 anni di ritardo. Ecco, anche per questo giudico meritoria l’accelerazione impressa in questa fase. (Applausi dai Gruppi SCpI, PD e PI).