Informativa del Governo sull’attentato terroristico al periodico «Charlie Hebdo» a Parigi e conseguente discussione.

Seduta del 12/01/2015

 

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sull’informativa del Governo.

È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Ministro, mi associo alle sue parole di cordoglio e dico subito che noi sosterremo lo sforzo che lei ha delineato. Lo sosterremo senza se e senza ma: bisogna intervenire con forza contro il Daesh, il cosiddetto califfato islamico, perché il terrorismo tra Siria ed Iraq si è fatto stato. È necessario lavorare qui per proteggere i nostri cittadini e fare di tutto – ogni sforzo – per garantire la sicurezza nel nostro Paese.

Bisogna poi assolutamente evitare di fare confusione tra terroristi ed Islam, così come non bisogna confondere questo tipo di minaccia con il fenomeno dell’immigrazione. Ha detto inoltre bene: non bastano misure di sicurezza. L’esecuzione a Parigi dei giornalisti di «Charlie Hebdo» e dei poliziotti in servizio per proteggerli non è il risultato dei fallimenti della Francia nell’assimilare due generazioni di musulmani immigrati dalle ex colonie; non ha nulla a che vedere con il ruolo militare della Francia contro lo Stato islamico in Medio Oriente, né con l’invasione dell’Iraq da parte dell’America. Ancor meno l’attentato deve essere compreso e spiegato come la reazione alla mancanza di rispetto per la religione da parte di vignettisti irresponsabili.

Si tratta soltanto dell’ultimo dei colpi sferrati da un’ideologia che cerca da decenni di ottenere il potere attraverso il terrore. È la stessa ideologia che ha costretto a nascondersi per un decennio Salman Rushdie (condannato a morte per aver scritto un romanzo), che ha poi ucciso il suo traduttore giapponese e che ha cercato di uccidere quello italiano ed il suo editore norvegese. È la stessa ideologia che ha ucciso 3.000 persone negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001 e che ha massacrato Theo Van Gogh nelle strade di Amsterdam nel 2004 per aver fatto un film. È la stessa ideologia che ha regalato stupri di massa e massacri alle città e ai deserti della Siria e dell’Iraq; che ha massacrato 132 bambini e 13 adulti in una scuola a Peshawar il mese scorso e che regolarmente uccide ormai così tanti nigeriani, specialmente quelli più giovani, che nessuno vi presta più attenzione.

Noi, forse più di altri, dovremmo sapere bene con cosa abbiamo a che fare e che l’ideologia può essere il motore delle azioni umane. Tra il 1969 e il 1985, il terrorismo di estrema destra ed estrema sinistra ha prodotto in Italia 428 morti e centinaia di feriti. In quegli anni si registrarono oltre 12.000 attentati politici. Si tratta della cifra più rilevante in Europa occidentale. Non è un fenomeno che si è manifestato solo nel nostro Paese, ma soltanto in Italia è stato così longevo e radicato.

Le Brigate rosse hanno goduto di consensi e hanno avuto numerosi ammiratori anche negli ambienti colti. Non mi riferisco soltanto ai cattivi maestri, ma a decine di cittadini anonimi: studenti, professori di ogni ordine e grado, impiegati, casalinghe, disoccupati e pensionati, uomini politici. In tutte le categorie sociali è possibile, almeno una volta, imbattersi in un interlocutore che, riferendosi alle Brigate rosse, abbia detto: «Si va bene, però».

Questa formula iniziale è il preludio a frasi e ragionamenti che non mutano nel tempo: «Uccidere è sbagliato però bisogna calarsi in un contesto particolare»; «mi dispiace per le famiglie delle vittime però D’Antona e Biagi hanno massacrato migliaia di lavoratori con le loro riforme del mercato del lavoro«; «i brigatisti uccidono, però non bisogna dimenticare che in Parlamento siedono un sacco di farabutti». In Italia esistono le Brigate rosse e le «Brigate rosse però».

La frase «le Brigate rosse, però» aiuta a comprendere il successo e la longevità del terrorismo rosso nel nostro Paese. Esiste una educazione alla violenza che è difficile da individuare perché si insinua nelle relazioni elementari della vita quotidiana, allora come oggi. L’educazione alla violenza è fatta anche di giudizi sommari, di discorsi aggressivi e qualunquisti che scandiscono la nostra quotidianità. L’educazione rivoluzionaria è, in tutto e per tutto, un’educazione alla violenza.

Un giovane estremista può uccidere soltanto dopo aver imparato che uccidere è lecito e doveroso, attraverso una pedagogia dell’intolleranza. Le Brigate rosse sono state e sono, innanzitutto, un fenomeno ideologico, e anche oggi l’ideologia, una scismatica ideologia di morte, è l’elemento determinante che motiva il terrorismo jihadista.

Ovviamente, questo sistema psicologico non agisce nel vuoto. La nascita delle Brigate rosse avviene in un’epoca della storia italiana in cui i processi di modernizzazione del Paese sono tanto bruschi da cambiarne il volto nel giro di pochi anni, costringendo gli individui a una rapida “conversione culturale”. Esiste una tensione tra la rapidità con cui muta la società e la lentezza con cui ci si adatta, che fa sì che si crei una disponibilità ad accettare soluzioni radicali contro l’ordine esistente. Così come accade oggi nel mondo islamico.

Inoltre, come accade oggi nel mondo islamico, anche l’esperienza delle Brigate rosse non piove dal cielo o non spunta dal nulla ma si inserisce in una tradizione rivoluzionaria ben specifica. Tutte le categorie interpretative di cui si avvalsero le Brigate rosse sono ricavate, in blocco, dalle opere di Marx e Lenin. Ma quel che dalla nostra esperienza va evidenziato è proprio questo. A decidere  furono l’impegno e lo sforzo dei partiti e delle istituzioni e, soprattutto, le reazioni della società italiana che continuò a vivere, agire e operare senza entrare nella sindrome da stato di emergenza e che mostrò una eccezionale capacità di tenuta. Furono queste reazioni che riuscirono a neutralizzare il discorso portato avanti dal terrorismo attraverso il rafforzamento di quello che è stato definito il “consenso istituzionale” verso lo Stato.

E sotto questo profilo un contributo di enorme importanza deve essere, ovviamente, riconosciuto al Partito comunista che con la sua incondizionata presa di posizione a favore dello Stato repubblicano e delle sue istituzioni, riuscì a convogliare allora vasti settori di quelle che venivano chiamate le “masse lavoratrici” sui binari di un sostegno pro-sistema. Fu infatti Guido Rossa la prima vittima della campagna di terrore contro quella che le Br definivano “l’ala riformista dello schieramento politico”.

Oggi siamo allo stesso punto. Oggi la manifestazione più credibile di un Islam che voglia vivere e convivere in Europa, passa attraverso un’esplicita, appassionata e sincera denuncia non solo delle violenze, ma dell’intolleranza e del disprezzo della libertà altrui; attraverso un esplicito e proclamato ostracismo civile e religioso contro il fanatismo che arma le milizie e lupi solitari.

Per questo è importante, come lei ha detto, signor Ministro, che un generale come al Sisi, presidente dell’Egitto, abbia fatto un appello all’Università del Cairo per una “rivoluzione religiosa”, definendo “inconcepibile” il fatto che l’Islam sia diventato “fonte di ansia, di pericolo, di morte e distruzione per il resto del mondo”. Non mi riferisco alla «religione» – ha detto al Sisi – «bensì alla “ideologia” – il corpo di testi e di idee che abbiamo santificato nel corpo di secoli, al punto che rimetterli in discussione diventa difficile. Abbiamo raggiunto il punto in cui questa ideologia è ostile al mondo intero». Così concludeva al Sisi: «È concepibile che 1,6 miliardi di musulmani uccidano il resto della i popolazione mondiale, per vivere da soli? È inconcepibile».

«Voi imam», ha detto Sisi, «siete responsabili di fronte ad Allah per questa rivoluzione. Il mondo intero sta aspettando il vostro prossimo passo».