Discussione dei disegni di legge nn. 1385e 1449 – Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati.

Seduta del 08/01/2015.

 

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Presidente, colleghi, in molti nel corso della discussione e anche alcuni costituzionalisti nel corso delle audizioni in Commissione, si sono esercitati in ricostruzioni storiche e hanno indicato preferenze politiche ovviamente opinabili. Trovo, ad esempio, discutibile ritenere che, come è stato detto da uno degli auditi, l’adattamento del nostro sistema produttivo ai mutamenti strutturali del mercato, il passaggio dalla produzione dei beni all’economia dei servizi, alla società dell’informazione, debba avvenire preferibilmente con un sistema elettorale proporzionale. Si tratta di una preferenza contestabile, che tuttavia, come la tendenza a invocare o minacciare sempre nuove ragioni di potenziale incostituzionalità, ha una premessa, un punto di partenza, un sottointeso. Il presupposto è che il premio è il male e la rappresentanza fotografica è il bene perché democrazia è uguale proporzionale. Più il proporzionale è puro, più la democrazia è reale; anzi, la democrazia è possibile solo con il sistema proporzionale. Torno perciò, a più di 25 anni di distanza dal crollo del muro di Berlino e dal collasso del vecchio sistema politico, su un nodo irrisolto. Oggi il bipolarismo, il maggioritario, la personalizzazione, l’elezione diretta, tutti indistintamente accomunati sotto l’etichetta del populismo, sono diventati nella narrazione che ha preso piede il segno della fine della democrazia, dell’abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi, ma dal crollo della prima Repubblica consentire ai cittadini di scegliere con un voto un leader e una maggioranza è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di Governo delle leggi elettorali. Sono passati 22 anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendumdel 1993: sono i partiti o i cittadini a scegliere il Governo? E questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal 1993 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente i sindaci, i Presidenti di Provincia e di Regione; per tacere del fatto che pochi mesi fa alle elezioni europee abbiamo simulato l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea indicando per ogni partito un candidato alla poltrona di Presidente.

Il guaio è che, da allora, la competizione bipolare è stata costantemente ipotecata dalla persistenza del precedente sistema istituzionale e da una struttura incoerente e frammentata delle due principali coalizioni. Da allora, però, la nostra Repubblica non è più quella di prima, è già cambiata, ed oggi risulta incompiuta, a metà, ed il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale, quanto la forma di Governo, cioè la qualità della forma di Stato. È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco, al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta – o come se lo fosse – il perno attorno al quale ruota il sistema, senza peraltro introdurre alcun serio contrappeso.

Va da sé che, con questo rivestimento istituzionale, l’Italia, prima o poi, sbatterà la testa contro il muro, anche perché – come ha spiegato un po’ di tempo fa il professor Sartori – «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale». Infatti, spiega Sartori, «le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». Come abbiamo visto in questi vent’anni, «un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro a quello con premiership rischia di inciampare ad ogni passo»: non per caso, Sartori ritiene che, in questi casi, la strategia preferibile non sia il gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto, perché le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semiparlamentarismo e maggiori se si salta al semipresidenzialismo.

Il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella particolare e specifica forma della partecipazione alla politica e quel particolare sistema politico siano i migliori e dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibile di quell’esperienza. Questo atteggiamento nasce però da una visione statica e conservatrice: il vecchio sistema dei partiti non tornerà più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La metamorfosi è già avvenuta: nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello e dello Stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza – all’ideologia, all’utopia ed alla morale del partito – non vi sono più, l’unica strada praticabile è esaltare la possibilità e la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza dello Stato. Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile ad una crisi di fiducia ormai incontenibile? Forse dovremmo guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni peraltro a tutti i Paesi avanzati, dalla struttura economica all’eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all’individualizzazione dei valori: in tutte le società industriali avanzate, le condizioni di prosperità economica raggiunte hanno modificato i nostri valori; ora, rispetto alle generazioni del periodo postbellico, l’autoespressione, la qualità della vita e la scelta individuale sono diventate centrali e questa nuova visione del mondo si accompagna ad una de-enfatizzazione di tutte le forme d’autorità.

Insomma, invece di essere diretti dalle élite, tutti si impegnano in attività dirette a sfidarle. Bisognerà farsene una ragione: oggi nessuno partecipa alla politica come in passato, per questo bisogna passare definitivamente da una concezione ed una pratica politica fondate su una dichiarazione ed una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il Governo del Paese.

Detto questo, ovviamente ognuno ha in testa il suo sistema elettorale, come ciascuno di noi ha in testa la propria formazione della nazionale. Io avrei preferito fare come in Francia: doppio turno di collegio ed elezione diretta del Presidente. Personalmente, nutro una convinta preferenza per il semipresidenzialismo francese, perché le sue regole e le sue istituzioni contribuiscono in maniera molto significativa alla ristrutturazione dei partiti e delle loro modalità di competizione, all’eventuale formazione delle coalizioni di Governo, nonché a dare potere ai cittadini. In Francia, la ristrutturazione dei partiti – basti pensare all’UMP – ha avuto come principale volano la competizione per la Presidenza della Repubblica ed i partiti sono sopravvissuti.

Ricordo che la possibilità di arrivare ad un accordo accettabile tra la primavera e l’estate del 2012 ci sarebbe stata: il PdL aveva offerto al PD un patto istituzionale vantaggioso, ossia una legge elettorale alla francese, in cambio del semipresidenzialismo alla francese; alcuni di noi, anche allora, provarono a dire che il cambiamento si imponeva, poi le cose sono andate come sono andate.

Ora, però, non è che possiamo tornare indietro riaprendo la discussione sul miglior sistema ipotizzabile in astratto per l’Italia: l’Italicum è già passato alla Camera, quindi dobbiamo cercare di andare avanti con quel che c’è, cercando di migliorare il testo, e prima si fa, meglio è, anche perché, con il passare del tempo – dopo più di vent’anni – alcuni problemi si sono aggravati e richiedono soluzioni più forti, mentre allora, a malattia ancora non così incancrenita, sarebbero bastati rimedi ben più modesti. Mi spiego: forse negli anni Ottanta, quando c’erano i vecchi partiti, cioè organizzazioni robuste, sarebbe bastato introdurre una soglia di sbarramento e la fiducia costruttiva, ora non basta più. Non ci sono quelle organizzazioni e la società è cambiata e va detto anche che, per altro verso, alcuni passi in avanti sono stati compiuti, come la stabilizzazione dei sistemi elettorali e delle forme di Governo a tutti i livelli subnazionali (Regioni, Comuni).

Resta il fatto, però, che la transizione è ancora incompiuta, perché è contraddittoria sia sul piano della forma di Governo nazionale, sia su quello del rapporto centro-periferia. Senza contare che mentre il Governo è un protagonista decisivo nel favorire le riforme, perché senza il suo protagonismo i veti finirebbero per prevalere come finora è accaduto, esso deve già agire come se possedesse ora quella forza e quella coerenza che a regime gli saranno dati dalle nuove regole.

Poste queste premesse, riassumo. Lo scopo della riforma costituzionale è il superamento del bicameralismo perfetto, che comporta la perdita del potere fiduciario e del voto paritario sulle leggi da parte del Senato e la responsabilizzazione in esso dei legislatori regionali. Lo scopo della riforma elettorale è duplice: quello di individuare un chiaro vincitore che ci preservi dalle grandi coalizioni permanenti, che sono naturalmente favorite dalla frammentazione e dall’insorgere di vari populismi, e quello di riavvicinare eletti ed elettori rispettando i paletti della sentenza della Corte.

Le audizioni svolte in Commissione sono state utilissime. Ci hanno dato spunti utili per evitare errori, ma non vanno prese per sentenze anticipate, anche perché le opinioni dei costituzionalisti spesso divergono tra di loro ed i paletti dentro ai quali possiamo scegliere restano molto ampi.

Dopo la sentenza n. 1 del 2014, l’andazzo è quello di accusare tutto ciò che non si condivide di incostituzionalità. Ma quella sentenza, a ben vedere, ha solo chiesto una soglia minima per il premio e che le liste bloccate non siano lunghe. Si possono ovviamente prospettare altre conseguenze, ma sono ricostruzioni personali, non stanno dentro la sentenza. Basterebbe ricordare che le leggi elettorali per Camera e Senato sono nate divaricate alla Costituente.

Rilevo inoltre che con due schede diverse per Camera e Senato, anche con due sistemi identici, persino se i diciottenni votassero anche al Senato, la governabilità non può essere garantita per principio. Gli elettori potrebbero separare i voti, il che finirebbe col travolgere qualsiasi correzione alla proporzionale.

Si finirebbe insomma per costituzionalizzare di fatto la proporzionale, scelta che non è stata fatta alla Costituente. Può essere una posizione culturale, ma non è un obbligo per il legislatore, dato peraltro che il referendum del 1993, che ho ricordato, ha compiuto una scelta in senso diametralmente opposto.

In realtà, il premio alla sola Camera non assicura la governabilità ma la incentiva comunque in modo decisivo: il vincente alla Camera sarebbe comunque inaggirabile, sarebbe comunque il perno del Governo. E questo da solo legittima la disproporzionalità. Per questa ragione, ritengo che il Senato possa tranquillamente approvare l’Italicum con il premio alla sola Camera.

I sistemi elettorali, del resto, vanno valutati in relazione agli obiettivi che ci si prefigge. Resto dell’opinione che l’obiettivo di un sistema bipolare sia l’unico in grado di dare vita ad un Governo legittimato dal corpo elettorale, evitando l’ingovernabilità o il ricorso a grandi coalizioni non omogenee. Alla luce di questo obiettivo trovo, nel complesso, positivo il testo approvato alla Camera, che prevede l’assegnazione di un premio di maggioranza fin dal primo turno e l’eventuale ballottaggio a livello nazionale nel caso di mancato conseguimento del premio.

Ci sono, nel testo della Camera, alcuni punti critici che abbiamo peraltro evidenziato nel corso della discussione. Trovo perciò convincente la proposta della relatrice Finocchiaro di prevedere il premio a favore non di una coalizione di liste, ma a favore della lista vincitrice.

Sarebbe inoltre preferibile una soglia più alta per il conseguimento del premio e cioè far scattare il secondo turno solo se nessuna forza politica sia riuscita a raggiungere almeno il 40 per cento dei voti, rendendo così meno eventuale il passaggio al secondo turno di ballottaggio.

Condivido inoltre la proposta della presidente Finocchiaro di introdurre un’unica e ragionevole soglia di esclusione. Spetta al premio assicurare la governabilità e, perciò, non è necessario escludere la presenza in parlamento di forze minori.

Su tutte queste questioni abbiamo presentato emendamenti.

Infine, per quel che riguarda la scelta dei candidati, dico subito che avrei preferito il ritorno ai collegi uninominali. Non mi persuade il ritorno al voto di preferenza. Le preferenze hanno dato cattiva prova, basti vedere le elezioni regionali e i collegi esteri.

Oltretutto, il voto di preferenza richiede disponibilità di risorse finanziarie ingenti, produce frantumazione correntizia all’interno dei partiti e accresce il peso degli interessi. Inoltre, dopo l’abolizione del finanziamento pubblico, la restaurazione del voto di preferenza potrebbe rivelarsi perfino criminogena. Non per caso è un sistema abbandonato da tempo in tutti i Paesi avanzati.

L’ipotesi del relatore dei capilista bloccati e per il resto il ricorso al voto di preferenza può rappresentare una mediazione utile, sia pure non entusiasmante.

In conclusione, non c’è nella proposta in discussione l’elezione diretta, che richiederebbe una revisione costituzionale, ma con il ballottaggio tra le due coalizioni o fra i due partiti, il leader è destinato ad avere una legittimazione diretta da parte del corpo elettorale e questo è un nodo centrale. Compito dei sistemi elettorali in un sistema parlamentare, infatti, non è solo quello di rappresentare, ma anche quello di esprimere un Governo. La rappresentanza non è fine a se stessa, ma è in funzione della legittimazione a legiferare e a concorrere al Governo. Da qui l’importanza, a nostro modo di vedere, dei sistemi a doppio turno, perché consentono all’elettore di scegliere direttamente chi è legittimato a governare.

Infine, come Gruppo ci siamo espressi in modo contrario in relazione all’introduzione della clausola di salvaguardia per mettere nel frattempo a sistema la normativa derivante dalla sentenza per due ragioni. In primo luogo, per una ragione di natura costituzionale: trovo che ci sia stato un eccesso di zelo, visto che la Corte non ha invitato il Parlamento ad agire. La Corte non ha scritto niente del genere, al di là dei pareri di insigni costituzionalisti. Senza contare che il presupposto della sentenza, la sua legittimità sta nella sua immediata applicabilità. La norma infatti, anche a seguito del giudizio di costituzionalità, è stata ritenuta dalla stessa Corte idonea a garantire il rinnovo degli organi costituzionali. Se poi dovesse servire intervenire per stabilire dove mettere la riga su cui scrivere la preferenza, può farlo il Governo, anche perché l’eventuale decreto non interviene in materia elettorale, non interviene sulla formula elettorale, ma unicamente su elementi meramente tecnici e applicativi, per dirla con le parole usate dalla Corte.

In secondo luogo, ci siamo espressi in modo contrario per una ragione politica. Perfezionare la subordinata significa votare con la subordinata. Resto dell’opinione che il ritorno al sistema proporzionale non sia desiderabile; resto dell’opinione che compito dei sistemi elettorali in un sistema parlamentare non sia, come dicevo prima, solo quello di rappresentare, ma anche quello di esprimere un Governo.

Altra questione è quella di mantenere un rapporto con la riforma costituzionale per cui è ragionevole prevedere una data successiva al suo compimento per l’entrata in vigore della legge elettorale, com’è stato rilevato ieri dal Governo, il che si può fare agevolmente con un emendamento.

Sarebbe auspicabile che la discussione sulle formule elettorali tornasse a basarsi sul confronto fra ragioni di politica istituzionale e non su una specie di gara a chi la spara più grossa in termini di legittimità costituzionale, perché sta al Parlamento soppesare le istanze che vengono dalla società ed individuare equilibri tra opzioni altrettanto legittime, assumendosene la responsabilità, che è appunto politica. (Applausi dal Gruppo SCpI. Congratulazioni).