Proposta di revisione della Parte II della Costituzione (ddl cost. n. 1429 e connessi). Dichiarazione di voto finale.

Seduta n. 303 del 08/08/2014

(Bozze non corrette redatte in corso di seduta)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione dei disegni di legge costituzionale ( … ) Ricordo che nella seduta di ieri si è concluso l’esame degli articoli e degli emendamenti ad essi presentati. Passiamo alla votazione finale.

MARAN (SCpI). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Presidente, rappresentanti del Governo, colleghi, sono passati venticinque anni dalla caduta del Muro di Berlino – lo ricorderemo il prossimo novembre – con le sue ricadute sul sistema dei partiti della prima Repubblica (in Parlamento non c’è più nessuno di quelli che dettero vita alla Costituzione) e sulle richieste autonomistiche e regionalistiche, che non per caso emersero proprio in quella fase. È dalla scomparsa della divisione del mondo in due blocchi che il Muro ha simboleggiato – dunque, da almeno venticinque anni – che sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti, in un processo segnato, più che negli altri Paesi, dalla Guerra fredda. Non è un mistero per nessuno, infatti, che fu voluto dalla Costituente un sistema di Governo debole perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo; un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne, come dimostra quello che sta accadendo in quest’Aula da settimane, e la presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari.

A dire il vero, non tutti attesero che crollasse il Muro per cominciare a riflettere sui nodi irrisolti del processo costituente: la Commissione Bozzi è del 1983 e basterebbe ricordare le prime riforme incrementali, come quella sulla limitazione del voto segreto. Giorgio Frasca Polara ha ricordato in un suo scritto che, nel lontano 1979, Nilde Iotti, allora Presidente della Camera, espresse tre idee sulla riforma costituzionale, che corrispondono in sostanza ai contenuti del disegno di legge in discussione: basta con questo assurdo bicameralismo perfetto; basta con mille parlamentari («quanti ne ha la Cina, ma loro sono 1.300 milioni»); federalismo istituzionalizzato trasformando il Senato in Camera delle Regioni e dei poteri locali («perché il Senato non potrebbe essere come il Bundesrat tedesco?»). Così Nilde Iotti nel 1979.

Non per caso, come dimostrano i lavori della Commissione di esperti del Governo Letta, è quasi impossibile trovare argomenti tesi a difendere lo status quo. Eppure la contemplazione ammirata e acritica del passato e l’avversione e l’intolleranza per ogni innovazione è forse ciò che più colpisce nella discussione in corso sulla riforma del Senato. Così per i critici della riforma una seconda Camera eletta dai Consigli regionali e non dai cittadini sarebbe in sostanza un’istituzione non democratica; eppure in Europa quella dell’elettività diretta non è affatto una regola ma tutto l’opposto: la maggioranza dei Paesi dell’Unione (15 su 28) non hanno una seconda Camera; tra i 13 che hanno una seconda Camera solo in cinque Paesi i suoi membri sono direttamente eletti dai cittadini (e anche in Spagna una parte dei membri sono disegnati dalle comunità autonome) e tra questi cinque Paesi solo in Italia, Polonia e Romania la seconda Camera ha dei poteri rilevanti e solo in Italia il Senato ha gli stessi poteri della Camera dei deputati.

La combinazione di premio di maggioranza e Senato non elettivo sarebbe poi un attentato alla democrazia, come se solo una Camera bassa eletta con un sistema proporzionale fosse compatibile con un Senato non eletto direttamente dal popolo. Sono ovviamente legittime le perplessità (che sono anche le nostre) su una proposta di legge elettorale, l’Italicum, che lo stesso Presidente del Consiglio si è detto disponibile a rivedere; tuttavia, con questo metro di giudizio il Regno Unito sarebbe un sistema ben poco democratico: Toni Blair ha vinto il suo terzo mandato con il 35 per cento dei voti e con questa percentuale il Labour ha ottenuto il 55 per cento dei seggi e la Camera dei Lord non è certo un’istituzione eletta dal popolo. La stessa cosa in Francia, dove, con il 29 per cento dei voti ottenuti al primo turno, il partito socialista di Hollande ha conquistato il 53 per cento dei seggi nell’Assemblea nazionale e il Senato francese non è eletto dai cittadini.

Quindi, se togliamo di mezzo le difese impossibili dello status quo, ovviamente una Camera regionale si può fare in molti modi. Una Camera che non può non essere a netta maggioranza regionale, perché è un luogo di dialogo tra legislatori, può essere composta dai Consigli regionali, in modo simile all’esperienza austriaca (come nel testo in esame), dalle Giunte, quindi in modo simile al Bundesrat tedesco (come avremmo voluto noi), ma anche in raccordo con gli elettori al momento delle elezioni regionali, come avviene in Spagna e come ha proposto il senatore Chiti. Anche sui poteri, una volta scartato il rapporto fiduciario e di conseguenza i poteri paritari, ci può essere un’ampia fascia di oscillazione tra le tipologie di legge che sfuggono alla prevalenza della Camera. Basterebbe leggere il volume sui lavori della Commissione nominata dal Governo Letta per trovare argomenti a favore delle varie composizioni e delle varie forme di rinvio. Non si capisce però perché innalzare le Regioni e i Governo locali al piano delle istituzioni parlamentari sembra ad alcuni inadeguato e perfino sacrilego, dimenticando che sindaci e Presidenti della Regione sono autorità democratiche elette direttamente, che non hanno nulla da invidiare in termini di pedigree democratico a senatori e deputati (Applausi dai Gruppi SCpI e PI). Si dimentica inoltre che dall’azione delle Regioni e dei Comuni dipende la gran parte dell’erogazione dei servizi sociali, dell’attuazione delle leggi, delle politiche statali, della spesa pubblica.

Si dimentica inoltre che porre all’interno delle istituzioni costituzionali il luogo di coordinamento tra la legislazione dello Stato e la sua attuazione nei territori è una necessità imprescindibile per il buon funzionamento del sistema costituzionale, visto che la nostra Costituzione è già cambiata e, comunque la si consideri, la riforma del Titolo V ha portato alla parte della Costituzione che regola i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali modifiche profondissime, dimenticando che proprio la mancanza del luogo parlamentare di mediazione è il principale punto critico della riforma ed in carenza di una stanza di compensazione degli interessi l’incertezza ha generato numerosissimi conflitti e la Corte costituzionale si è trovata costretta a dirimere questioni che hanno un alto tasso di opinabilità e dunque di politicità.

Per questa ragione appaiono completamente fuori centro le critiche benaltriste, secondo cui questa sarebbe una riforma sovrastrutturale, che servirebbe solo ad allontanare nel tempo le riforme economiche, perché eliminare il ricorso massiccio alla Corte di Stato e Regioni e dare certezze sulla normativa in vigore produce effetti economici altrettanto diretti, perché porta prevedibilità e stabilità nelle decisioni pubbliche: basta pensare alle questioni dell’energia, alle grandi reti infrastrutturali e al turismo. Certo, non basta riformare la Costituzione per risolvere i nostri problemi. Madrid è tornata a crescere grazie alla riforma più difficile: quella del mercato del lavoro. Ha inoltre rafforzato il sistema di formazione per i disoccupati e dato un stretta ai sussidi di disoccupazione, che in Spagna avevano assunto un peso enorme. E si passa di qui. Noi ci aspettiamo che il Governo affronti la riforma del lavoro (e la riduzione della spesa, la riforma della giustizia, della burocrazia) con la stessa determinazione con la quale ha affrontato la riforma del Senato (Applausi dai Gruppi SCpI, PD e PI e del senatore Quagliariello). È necessaria una profonda trasformazione dell’Italia e dobbiamo cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei.

Mi spiego con un esempio: nei Paesi dell’Unione c’è una forza di polizia per il controllo capillare del territorio e una forza di polizia per il contrasto della grande criminalità (questo avviene in tutti i Paesi dell’OCSE). In Italia ci sono sei diverse e autonome forza di polizia, senza contare la polizia municipale, spesso in competizione l’una con l’altra e ciascuna incaricata di occuparsi di tutto, ben al di là della propria specializzazione. La conseguenza è che otteniamo, spendendo 3 punti di PIL (il 30 per cento in più della Germania), risultati inferiori a quelli degli altri. L’elenco potrebbe continuare: vale per difetti della nostra giustizia civile o per il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali, eccetera. Ecco il benchmarking, il confronto sistematico che permette alle aziende che lo applicano di compararsi con le migliori e soprattutto di apprendere da queste per migliorare. Bisogna cambiare. Vale per il Senato, deve valere per tutti (Applausi dai Gruppi SCpI e PI).

Non è un caso che molti degli oppositori dei progetto abbiano sin dall’inizio (in raccordo con quei settori sociali per i quali il rafforzamento delle istituzioni politiche comporterebbe una riduzione del proprio potere) falsato il dibattito col ricorso ad argomenti propagandistici sproporzionati, parlando di deriva autoritaria, di P2. Non c’è da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario o parafascista. Sono a confronto due concezioni della democrazia: l’una è assembleare e fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento; l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana, quella del Dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza. La seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati. Con i due referendum del 1991 e del 1993 abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa per affermare un modello di democrazia governante. È da allora che è iniziata una transizione che ora, a 25 anni dal crollo del Muro di Berlino, possiamo e soprattutto dobbiamo portare a compimento.

Nella situazione in cui siamo l’Italia ha bisogno di cambiamento, ha bisogno di fiducia, ha bisogno di riforme, e non può permettersi i ritardi culturali della vecchia sinistra speculari a quelli della vecchia destra. Noi di Scelta Civica per l’Italia sosterremo come sempre questo sforzo. (Applausi dai Gruppi SCpI, PD e del senatore Panizza).