Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in vista del Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014 e sulle linee programmatiche del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea e conseguente discussione

Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 268 del 24/06/2014
(Bozze non corrette redatte in corso di seduta)

Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in vista del Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014 e sulle linee programmatiche del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea e conseguente discussione.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.
MARAN (SCpI). Signora Presidente, onorevoli colleghi, il nostro Gruppo sosterrà lo sforzo che il presidente Renzi ha delineato nel suo intervento: quel profondo cambiamento nell’agenda politica ed economica europea necessario per rilanciare crescita e lavoro, lo sforzo per definire le necessarie riforme strutturali a livello nazionale, lo sforzo per rafforzare il ruolo dell’Europa nel mondo.

Se c’è una cosa che non è uscita ridimensionata dalle elezioni è proprio l’esigenza di porre al centro della legislatura quella che noi abbiamo chiamato la riforma europea dell’Italia, cioè le riforme necessarie per la piena integrazione dell’Italia nella nuova Europa.
Oggi più che mai la scelta che il Paese deve compiere è quella pro o contro la profonda trasformazione dell’Italia. Oggi più che mai il vero spartiacque della politica italiana non è quello tra la vecchia sinistra e la vecchia destra: il vero discrimine è tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile. Noi non rinunciamo a pensare che queste cose in Italia si possano fare. Nella situazione in cui siamo il Paese ha bisogno di cambiamento, ha bisogno di fiducia, ha bisogno di riforme e non può più permettersi i ritardi culturali della vecchia politica. A ben guardare alcuni degli interventi che ho ascoltato non sono che un’espressione di quello che Riccardo Perissich ha chiamato il «complesso di Calimero»: quel sistematico vittimismo che ha afflitto il nostro Paese in tutta la sua avventura europea, al quale val la pena di accennare poiché è sempre accompagnato – questo è il punto – dalla sfiducia nel poter affrontare con successo, come collettività nazionale, la sfida di modernità che viene dall’Europa. Le difficoltà economiche hanno fatto emergere infatti tutti i nostalgici del vecchio statalismo e nuovi correnti protezionistiche. L’Europa in questo contesto è stata additata come complice del capitalismo internazionale. Sarebbe lo strumento usato per privare il nostro Paese del suo patrimonio e del controllo della sua economia con il contorno di congiure oscure, congiure tra potentati italiani e internazionali sul panfilo della Regina d’Inghilterra.
L’euroscetticismo di casa nostra è perciò molto diverso da quello degli altri Paesi; non si nutre di una particolare visione dell’Europa, non ha niente a che fare con i liberisti anglofili, ma è piuttosto il prodotto della necessità – oggi evidente a tutti – di colmare il divario tra le parole e i fatti, tra la retorica europeista e le scelte concrete di politica interna. Non c’è verso: per poter essere protagonisti dell’Europa bisogna poter essere protagonisti di noi stessi, perché la maggior parte dei nostri problemi sono interni e vengono da lontano, visto che, tanto per fare un esempio, il declino del nostro sistema educativo, il collasso del sistema giudiziario e la stagnazione degli investimenti non nascono certo oggi.
Lei può contare, signor Presidente, sulla vittoria elettorale sui populisti e soprattutto sulla percezione di una seria determinazione a portare a termine in Italia le riforme strutturali promesse. Per pesare davvero in Europa non serve – come è stato detto – alzare la voce, ma è questa determinazione quella che più conta. All’Italia si offre una straordinaria opportunità per riacquistare un ruolo da protagonista, anche perché tornare indietro non è un’opzione. Passata la nottata le cose non torneranno come prima. Il mondo sta cambiando vorticosamente. Quando gli storici, tra cent’anni, guarderanno ai primi anni del secolo, l’evento più rilevante probabilmente non sarà la crisi finanziaria che da anni attanaglia il mondo occidentale. La realtà più importante sarà quello che gli americani chiamano the rise of the rest: l’ascesa del resto del mondo; la crescita, il risveglio, di Paesi come la Cina, l’India, il Brasile e moltissimi altri (l’elenco è interminabile): la più grande uscita di massa dalla povertà nella storia del mondo.
Si tratta di una crescita che è più visibile in Asia ma che non è confinata all’Asia: più di trenta Paesi africani (due terzi del continente) dal 2007 sono cresciuti a un tasso superiore al 4 per cento annuo. Inoltre, il vecchio ordine nato dalle macerie della Seconda guerra mondiale rischia di crollare. L’America non ha più la scala né la forza né il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo fornendogli la locomotiva economica e la sicurezza militare.

Non è scritto da nessuna parte che il declino e la decadenza siano un destino e un esito inevitabile. La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità, norme che incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia sono solo alcune delle misure che potrebbero cambiare le tendenze attuali. Ma il nostro futuro è necessariamente legato a quello dei nostri partner europei e si tratta di cogliere fino in fondo la lezione della crisi dell’Eurozona in quanto conseguenza dell’incompiutezza del cammino seguito dall’Unione dopo Maastricht. Quel che occorre, infatti, non è solo una politica monetaria, ma una politica fiscale, di bilancio e macroeconomica effettivamente europea. È verso un’Europa più federale, più integrata e più forte nella sua capacità di parlare e agire all’unisono che è inevitabile (e dico anche indispensabile) muoversi.
Va da sé che l’obiettivo principale dei prossimi mesi sarà quello di superare appieno la crisi economica e finanziaria e rilanciare la crescita dell’Unione. Bene ha fatto il Governo a premere per nomine che non si rifacciano solo a criteri o a schemi geografici, ma abbiano forti contenuti politici, e ha fatto bene a ipotizzare lo scambio tra un pacchetto di riforme e l’utilizzo di margini di flessibilità.

Ma servono anche politiche espansive, che trainino la crescita in Europa, da parte della Germania e degli altri Paesi in attivo, e anche da parte dell’Unione, attraverso il bilancio federale, come fanno gli americani, che usano il bilancio federale in chiave espansiva. Il che significa che l’Italia, insieme agli altri Paesi fondatori dell’Europa, deve scommettere sull’unione politica, sugli Stati uniti d’Europa.

Il secondo elemento, che richiamo rapidamente, è la questione energetica. Se ci volevano degli incentivi per convincere l’Europa a porsi finalmente il problema di una politica di sicurezza energetica degna di questo nome, dopo l’Ucraina gli incentivi ci sono. Senza contare che lo shale oil, costando oggi un terzo di quello importato in Europa, è destinato a dare un vantaggio competitivo enorme all’industria americana, non solo nel settore delle industrie energivore, ma anche della manifattura e dei servizi.
In altri termini, la competitività del sistema industriale europeo, già colpita dai processi di industrializzazione dei Paesi emergenti, è adesso messa a repentaglio anche dal nuovo sviluppo, forte e prevedibile, dell’industria statunitense. Serve una risposta immediata: bisogna mettere in cantiere subito quella politica energetica europea che non si è riusciti a varare per anni. Bisogna spingere il Consiglio europeo ad accettare l’idea che occorra finalmente privarsi, anche in questo settore, almeno in parte, della sovranità nazionale in questa materia.

Il terzo aspetto che deve incidere sulla condizione europea è la creazione del mercato unico euro-americano, rappresentato dalla Transatlantic trade and investment partnership (TTIP), a patto che il negoziato transatlantico su commercio e investimenti venga condotto sapendo di cosa si tratta: una grande occasione politica per l’Occidente, forse l’ultima, per riuscire a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del PIL mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale.
La disponibilità americana ha un significato strategico. Certamente c’è un motivo economico: come l’Europa, dopo la crisi anche l’America ha bisogno di aumentare le esportazioni; con il più grande accordo di libero scambio mai finora realizzato Europa e Stati Uniti darebbero vita ad un gigantesco mercato unico. Ma l’ampiezza del negoziato mira a costruire una relazione più strutturale e soprattutto più politica con l’Europa: la possibilità dell’idea di un mercato globale tra le democrazie, con al centro un pilastro euro-americano. Lei, signor Presidente del Consiglio, questa mattina si è chiesto qual è il ruolo dell’Europa nel mondo che cambia. Ecco, io provo a raccontarle – come lei ha sollecitato il Parlamento a fare – che tipo di orizzonte politico debba avere il disegno di un’Europa che civilizza la globalizzazione. C’è una minaccia alla stabilità globale rappresentata dall’emergere di Nazioni basate sul destabilizzante modello di capitalismo autoritario. C’è la possibilità di dare una nuova visione, una missione estroversa all’Europa, che renda produttiva e consolidi l’integrazione europea sul piano geopolitico ed economico.
L’America è ormai troppo piccola per reggere da sola il ruolo di governatore e locomotiva del mondo. La sua capacità imperiale, pur restando superpotenza economica e militare, si è esaurita e non c’è una singola Nazione occidentale che possa aspirare alla successione. Il nucleo euroamericano può fare da magnete per l’inclusione delle altre democrazie nell’alleanza globale tra loro. Possiamo passare dalla centralità di una Nazione guida al modello di alleanza tra Nazioni democratiche convergenti e diffondere il modello democratico nel pianeta. Questo non è un sogno millenarista. Diffondere il modello democratico significa ridurre l’aggressività esterna e creare un mercato meno esposto ai rischi di guerra; favorire la stabilità politica e finanziaria, perché la democrazia regola in modo non conflittuale i cambi di potere; realizzare l’obiettivo di un capitalismo democratico, che comporta una ricchezza più diffusa e non concentrata. È questa la nuova missione dell’Europa.
Nel periodo della pax americana l’Europa ha goduto di una protezione che l’ha isolata temporaneamente dalla normalità storica. La storia oggi è tornata. Lei ha richiamato il centenario della Grande guerra. lo vengo da Gorizia, un simbolo della Prima guerra mondiale sul fronte dell’Isonzo. In italiano si dice Gorizia, in tedesco Görz, in sloveno Gorica e in friulano Gurize. Non abbiamo mai dubitato di essere parte di una storia comune europea. Non abbiamo mai dubitato, dalle mie parti, di condividere un destino comune e valori comuni. Ci hanno diviso forze armate e ideologiche. Oggi che la storia è tornata, se gli Stati Uniti e l’Europa vogliono stare in prima linea sullo scenario mondiale dovranno farlo assieme, altrimenti nessuno potrà farlo. È questo l’orizzonte che il semestre dovrebbe delineare. (Applausi dai Gruppi SCpI e PD).