Conversione in legge del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 – dichiarazione di voto

(1213) Conversione in legge del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, recante abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore.

PRESIDENTE.

Passiamo alla votazione finale.

MARAN (SCpI). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà. (Brusio).

Invito i colleghi che desiderano allontanarsi dall’Aula a farlo con sveltezza.

Mi rivolgo a tutto il gruppetto nell’emiciclo a sinistra, proprio sotto il senatore Maran: capisco che vi siano ampie discussioni governative in atto, ma possono essere svolte anche nella sala Garibaldi. (Applausi dai Gruppi M5S e FI-PdL XVII).

MARAN (SCpI). Signor Presidente, colleghi, il Gruppo di Scelta Civica voterà a favore del provvedimento.

Il testo in esame dispone, in primo luogo, la soppressione graduale del finanziamento pubblico diretto ai partiti, quale inteso e realizzato dagli anni ’70 ad oggi. In secondo luogo, al posto della contribuzione pubblica diretta, si prefigura che il finanziamento agevolato ai partiti sia opera dei privati. Vi è poi un terzo elemento che connota l’impianto del provvedimento: l’intento di condizionare tale agevolazione al rispetto dei requisiti di trasparenza e democraticità interne ai partiti.

Sappiamo che una qualche forma di finanziamento pubblico della politica esiste in ogni democrazia e che il finanziamento alimenta la meccanica di una democrazia. Sappiamo anche che un cattivo finanziamento – ossia configurato in modo tale da non consentire alla politica di fornire risposte ai rendiconti che è tenuta a dare, com’è avvenuto nell’esperienza italiana – ha ridotto e riduce la politica ad emblema dell’autoreferenzialità, ha allontanato e allontana gli eletti dagli elettori ed è diventato il maggior ostacolo all’allargamento della partecipazione ed al raggiungimento degli obiettivi propri del sistema democratico. Da qui la decisione di abolire il finanziamento pubblico e dunque di affrontare il problema della ricerca dei fondi necessari nella società.

Le erogazioni liberali sono strumenti che la maggior parte degli ordinamenti conosce e sono leve utili a spingere i partiti a stare nella società, incentivandoli a ricercare un sostegno economico tra i privati, come simbolo e segnale di partecipazione attiva alle idee politiche che essi sostengono. In questo quadro, i controlli, la trasparenza e la divulgazione del finanziamento ricevuto, oltre che la predeterminazione, tanto dei soggetti erogatori, quanto dei livelli di finanziamento che si possono ricevere, rappresentano gli architravi della democrazia, senza contare che un efficace sistema di finanziamento della politica è strutturalmente connesso ad una disciplina legislativa che regoli i partiti politici.

Questi sono gli orientamenti ai quali ci siamo ispirati nel corso dell’esame del testo e ai quali si ispirano i nostri emendamenti, sottolineando anche le implicazioni ed i rischi della scelta che stiamo compiendo. Riteniamo tuttavia che il rapporto fra partiti e democrazia debba modificarsi radicalmente rispetto a quello del passato, che è caduto in crisi, e che la sua ricostruzione in una forma sostanzialmente uguale non sia praticabile e nemmeno auspicabile.

Tornare indietro non è un’opzione anche per un’altra fondamentale ragione: vi è un gravissimo problema di efficienza e di affidabilità del sistema politico istituzionale; la politica non decide, rappresenta poco e male e non risponde ai requisiti minimi di etica pubblica. In tutte le società industriali avanzate la gente è diventata più autonoma e sfida le élite, ma le difficoltà degli italiani (bassi salari, alta disoccupazione e disuguaglianza crescente) rischiano di trasformare le preoccupazioni economiche in risentimento. Dalla sfiducia alla rabbia il passo è breve e, prima che le difficoltà ed il risentimento crescano ulteriormente, l’Italia deve optare per le riforme. Dobbiamo offrire un cambiamento sia nelle politiche che nel modo di fare politica, a cominciare dai costi: ma non si tratta soltanto di questo, bensì della legittimazione della politica. Il problema che molti preferiscono rimuovere è che la classe politica tutta ed anche la politica come attività sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini.

I costi naturalmente sono importanti, ma l’indignazione dell’opinione pubblica per questo aspetto è in verità la spia di un problema più ampio: il sentimento prevalente è che i politici siano inutili, non facciano il loro mestiere e pensino solo ad arricchirsi. All’origine vi sono la reale perdita di ruolo della politica nazionale nelle condizioni della globalizzazione e la ricerca d’un capro espiatorio per la drammatica condizione di declino in cui si trova l’Italia. Ricordate quanto scriveva il Manzoni: «Impiccarli! Impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti».

Vi è però anche un oggettivo scadimento di qualità della classe politica, dovuto soprattutto alla stagnazione politico-culturale di questi anni. Bisogna perciò approfittare del momento – e la crisi economica è una ragione in più, semmai – per realizzare quei mutamenti costituzionali ed istituzionali necessari da moltissimo tempo, di cui il finanziamento è solo un tassello.

I veri costi della politica, però, sono innanzitutto quelli di transazione, ossia i rallentamenti, nel migliore dei casi (e le tangenti, nel peggiore), dovuti alla presenza diffusa di intermediazioni politiche ed alla crescita costante ed inesorabile dell’interposizione pubblica, tramite l’attività dello Stato, delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Sono ormai molti milioni gli italiani le cui opportunità di guadagno e di carriera dipendono pesantemente dalle decisioni discrezionali di funzionari, dirigenti ed amministratori pubblici.

È questo il vero costo che la politica impone al Paese. È questo il mare che, prima di ogni cosa, dovremmo cercare di prosciugare; questo è il punto su cui bisogna intervenire con decisione. Si tratta di ridurre gli spazi della gestione politica in tutta la società, per lasciare la politica alla sua vera e più nobile funzione. Proprio per questo abbiamo sollecitato, colleghi, la sperimentazione del contratto di ricollocazione e abbiamo sottolineato la scorrettezza dell’uso della cassa integrazione. Se vogliamo voltare pagina occorre sperimentare e praticare il necessario collegamento funzionale tra politiche passive e politiche attive del lavoro; semmai usiamo le risorse per estendere il trattamento di disoccupazione.

Per questo ci siamo concentrati sul nodo delle fondazioni, che ricevono finanziamenti da società pubbliche e aziende sulle quali i beneficiari (le personalità politiche al loro vertice) hanno esercitato funzioni di controllo. Siamo colpiti, ma anche sorpresi, dall’atteggiamento conservatore del Partito Democratico. Vediamo di capirci. Se si ritiene che il finanziamento pubblico diretto ai partiti vada mantenuto, lo si dica; esiste in tutte le democrazie moderne. Ma noi siamo contrari, fermamente contrari, alla prosecuzione delle vecchie abitudini e delle vecchie pratiche con altri mezzi.

I grandi think tank italiani, i pensatoi italiani, sono stati prima un affare di Stato (dallo SVIMEZ alla Banca d’Italia), poi un percorso intrapreso da alcuni pionieri (dal Mulino allo IAI), infine un affare di partito (dall’istituto Sturzo alla fondazione Gramsci). Per gli americani molti di essi non dovrebbero neanche essere definiti think tank, perché, come sempre, è difficile la riproducibilità di un modello anglosassone; la cornice è quella di un sistema di tassazione non assimilabile a quello italiano; il dibattito politico nel nostro caso è assai meno strutturato; vi è la mancanza di un sistema articolato di porte girevoli tra istituzioni e centri di ricerca. Oggi in Italia si è aperta la stagione del think tank personale, il nuovo modello di consigliere del principe (da Italianieuropei a Farefuturo). Questo è avvenuto in concomitanza con il processo di personalizzazione della politica (non solo in Italia) e di destrutturazione organizzata dei partiti politici: i think tank legati ai leader politici nati dopo il 1989 sono ben undici in Italia. Facciamo finta di nulla? Se qualcuno deve possedere i politici, allora tanto vale che sia il popolo italiano, specialmente in un contesto in cui rischiamo che alcune aziende pubbliche diventino i principali finanziatori di questi pensatoi o di correnti di partito, al cui vertice siedono le stesse personalità che avrebbero dovuto o dovrebbero controllarle.

Noi sappiamo che ristrutturare il sistema politico non è facile come cambiare una gomma bucata, anche perché pochi pezzi della società italiana si possono dire davvero estranei ad esso, estranei a quella esperienza che abbiamo alle spalle. Nel dopoguerra i partiti popolari riuscirono a legare un popolo che non aveva conosciuto mai la democrazia alle istituzioni profondamente democratiche; allora venivamo dal fascismo e dalla guerra e tutti vedevano i guasti del totalitarismo e la democrazia sembrava la medicina per tutti i mali. Il guaio è che oggi tutti vedono i difetti della democrazia e in molti possono essere tentati da soluzioni autoritarie o plebiscitarie. Per questo è venuto il momento di un grande sforzo di riforma dello Stato; è venuto il momento di cambiare. Per questo sforzo Scelta Civica metterà disposizione le proprie risorse. (Applausi dai Gruppi SCpI, PI e della senatrice Bisinella. Congratulazioni).