Discussione del disegno di legge: (1213) Conversione in legge del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149

Discussione del disegno di legge: (1213) Conversione in legge del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149 ,recante abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore

Resoconto stenografico della seduta del giorno 11 febbraio 2014.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signora Presidente, onorevoli colleghi, il finanziamento è un pezzo fondamentale del sistema politico-istituzionale; è uno degli strumenti che le democrazie moderne si sono date per favorire la partecipazione e il concorso di tutti i cittadini alle scelte politiche collettive.

In tutte le democrazie moderne la disciplina del finanziamento della politica è espressione del modo di intendere il rapporto tra governanti e governati. Dunque, decidere di riformare il finanziamento della politica significa stabilire un modello per la riforma della politica e dei partiti politici, destinatari del finanziamento in ragione della loro funzione nel gioco democratico.

Una qualche forma di finanziamento pubblico della politica esiste in ogni democrazia, generalmente di tipo misto, pubblico-privato, e connessa ad una disciplina legislativa dei partiti. Esiste in quanto il finanziamento rappresenta la garanzia concreta che ogni cittadino possa accedere al processo politico, in condizioni di parità, secondo il principio di uguaglianza, concorrendo alla «determinazione della politica nazionale», così come previsto dall’articolo 49 della nostra Costituzione.

È questa garanzia di uguale opportunità anche nella politica che distingue i regimi democratici da quelli liberal-oligarchici dove, invece, la misura dell’accesso alla politica è il censo.

Dunque, sappiamo che il finanziamento alimenta la meccanica di una democrazia; va detto, però, che un cattivo finanziamento, ossia un finanziamento configurato in modo tale da consentire alla politica di non fornire le risposte ed i rendiconti che è tenuta a dare, riduce – e ha ridotto nell’esperienza italiana – la politica ad emblema dell’autoreferenzialità, allontana gli eletti dagli elettori e diviene il maggiore ostacolo all’allargamento della partecipazione e al raggiungimento degli obiettivi propri del sistema democratico. Da qui nasce la decisione di abolire il finanziamento pubblico diretto ai partiti, quale inteso e realizzato dagli anni Settanta ad oggi, e di affrontare il problema della ricerca dei fondi necessari nella società. In luogo della contribuzione pubblica diretta, si prefigura infatti che il finanziamento agevolato dei partiti sia opera dei privati.

Le erogazioni liberali sono strumenti che la maggior parte degli ordinamenti conosce: vanno dalle agevolazioni fiscali per i cittadini (Francia, Germania e Olanda) alla completa deducibilità degli importi versati per acquisire le tessere (Danimarca).

Si tratta di leve utili per spingere i partiti a stare nella società, perché li incentivano a ricercare un sostegno economico tra i privati come segnale di partecipazione attiva ed appassionata alle idee politiche che essi sostengono.

In questo quadro, i controlli, la trasparenza e la divulgazione del finanziamento ricevuto, la predeterminazione dei soggetti erogatori (persone fisiche e giuridiche) e dei livelli di finanziamento che si possono ricevere (i tetti) rappresentano architravi di democrazia da fissare con grande attenzione.

Il terzo elemento che connota l’impianto del provvedimento, infatti, è l’intento di condizionare l’agevolazione del finanziamento privato al rispetto dei requisiti di trasparenza e democraticità interne a partiti e movimenti.

Su ciascuno di questi aspetti il Gruppo Scelta Civica per l’Italia ha presentato proposte emendative in Commissione e su alcuni punti tornerà nel corso dell’esame del provvedimento.

Ovviamente bisogna avere consapevolezza del significato e delle implicazioni delle scelte che stiamo operando, dal momento che, da Jefferson in poi, «i partiti sono i corpi di appoggio nell’elettorato di massa per l’edificio costituzionale universalistico». Non si può fare tale scelta pensando poi di indossare su questa impalcatura il modello tedesco o spagnolo. Non è questa la strada che porta a Berlino o a Madrid e bisogna essere consapevoli dei rischi che comporta.

Cito un esempio. È a tutti nota Arianna Huffington, una affermata opinionista americana, che ha lanciato «The Huffington Post» (un sito di notizie diventato rapidamente il media più letto, linkato e citato su Internet) ed è stata inserita da «Time Magazine» nella lista delle 100 persone più influenti del mondo. Di recente, ha lanciato l’allarme con un libro che si intitola «Third World America» e ha scritto: «Se non correggiamo la nostra rotta, potremmo diventare una nazione del Terzo Mondo, un posto dove ci sono solo due classi: i ricchi e tutti gli altri». Ovviamente Arianna Huffington si propone di restaurare l’American dream e fa appello al can-do spirit degli americani, cioè l’attitudine intraprendente e sicura di sé degli americani di fronte alle sfide. La parte finale del libro è dedicata alle cose da fare. Tra le proposte contenute nell’ultimo capitolo ve ne è una il cui titolo è «La madre di tutte le riforme», che viene prima di tutte le altre e che – con l’aria che tira dalle nostre parti – potrebbe sembrare perfino paradossale.

Cito testualmente: «È un classico comma 22: la maniera migliore per risolvere il mucchio di problemi che l’America si trova di fronte è attraverso il processo democratico, ma il processo democratico è seriamente danneggiato. Ecco perché il primo passo per fermare la nostra inesorabile trasformazione in un’America da Terzo mondo deve essere quello di liberarsi dalla presa soffocante che il denaro degli interessi particolari ha sulla nostra politica. Ciò deve cominciare con un completo ripensamento del modo in cui finanziamo le nostre elezioni. Il modo migliore per restaurare l’integrità del nostro Governo è attraverso il completo finanziamento pubblico delle campagne elettorali. È la madre di tutte le riforme – la riforma che rende tutte le altre riforme possibili. Dopo tutto, chi paga comanda. Se qualcuno deve possedere i politici, tanto vale che sia il popolo americano. Pensateci: niente donazioni politiche, niente PAC money, niente questua incessante per i soldi, niente favori in cambio di quattrini. Non più lobbisti seduti negli uffici di Camera e Senato intenti letteralmente a tradurre in leggi scappatoie fatte su misura. Non più omaggi alle corporazioni imbucati in enormi provvedimenti di spesa. Non più pericolosi rilassamenti delle norme di sicurezza che possono essere fatti risalire alle donazioni elettorali. Solo candidati ed eletti in debito con nessun altro che gli elettori».

Ho richiamato questo passaggio, questo esempio, perché quella del finanziamento pubblico, come poi lei conclude, «non è una questione democratica o repubblicana – è una questione fondamentale circa il tipo di democrazia che vogliamo avere».

Ora, non c’è dubbio che in Italia il rapporto tra partiti e democrazia deve modificarsi radicalmente rispetto a quello del passato, che è caduto in crisi. La sua ricostruzione in una forma sostanzialmente uguale non è praticabile e non è auspicabile. Il ‘900 è alle nostre spalle. Nel vecchio sistema e nella vecchia esperienza si rinunciava di buon grado – bisogna dire – alla possibilità di scegliere e di decidere per il Governo, con il corollario di responsabilità, di esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza che ciò comporta. In cambio di questa rinuncia, si esaltava l’appartenenza, l’identificazione in un partito; si aderiva alla sua ideologia, alla sua utopia, alla sua morale. Ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello Stato e dello Stato. Adesso l’identificazione e l’appartenenza non ci sono più.

Come si risponde a tutto ciò, se non esaltando in modo compiuto la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello Stato? Non è una questione tecnico-istituzionale, come sembra quando si discute di riforme; è una questione etico-politica. Come si riconquista e si riattiva la partecipazione alla politica, una volta caduti gli stimoli e gli impulsi che hanno funzionato in passato?

Per come la vedo io, ci sono due modi sbagliati di atteggiarsi di fronte a tale questione. C’è un modo nostalgico: si prende atto che non è più possibile praticare la vecchia forma della partecipazione politica, ma si ritiene che quella forma e il relativo sistema politico siano i migliori; si cerca dunque di avvicinarsi il più possibile a quel modello, di salvare più elementi possibili di quell’esperienza. Ma questo modo nostalgico nasce da una visione conservatrice e statica.

C’è un altro modo sbagliato, l’antipolitica. L’antipartitismo è animale assai facile da cavalcare. Lo dico con le parole di uno studioso noto e apprezzato come Roberto Bin: è «un errore gravissimo, alla cui radice c’è un’idea sbagliata: l’idea che la politica non costi e non debba costare. Che dirigere la politica nazionale sia una sorta di passatempo che si può affidare ad un dilettante. (…) Della preparazione e selezione di chi governa dovremo invece preoccuparci, e molto, e investire il necessario per cercare di ottenere risultati rassicuranti. Come dovremmo investire sulle strutture che elaborano le decisioni politiche. (…) Perché» – insiste Bin – «il vero problema è il costo del decidere. Decidere significa disporre di basi conoscitive adeguate, elaborare ipotesi, confrontare soluzioni e scegliere tra esse: tutto questo non può essere sostituito dall’improvvisazione, perché richiede strutture, analisi e procedure – e quindi costi. (…) C’erano case editrici, istituti, fondazioni che pubblicavano riviste e studi, promuovevano incontri e ricerche, organizzavano scuole per i quadri direttivi. Essi servivano ad elaborare idee e indirizzi politici. Per conoscere la linea di un partito a proposito di un tema determinato (la scuola, l’energia nucleare, il welfare o qualsiasi altro argomento in agenda) si sapeva che cosa consultare. Il partito investiva nell’elaborazione delle sue linee politiche, e queste si diffondevano nelle strutture periferiche, offrendo un indirizzo sicuro e un supporto culturale sufficiente ai dirigenti locali. Oggi, al giornalista che chiede ad un esponente politico l’opinione sul tema qualsiasi, giungono risposte improvvisate, prive di qualsiasi supporto. L’intervistato esprime la “sua” opinione, anche se non ha alcun titolo particolare per averne una. (…) Se oggi viviamo» – questa è l’opinione di Bin – «nella più profonda delle crisi economiche, la responsabilità è soprattutto dell’assenza di politica: l’apertura dei mercati alla globalizzazione, l’entrata nell’euro, l’esplosione della tecnologia sono fenomeni epocali che la politica – e quindi l’Italia – non ha saputo affrontare sul piano delle idee. (…) Aver tolto le risorse alla politica ha tolto al Paese la possibilità di elaborare risposte adeguate alle sfide».

Diciamoci la verità: i partiti sono essenziali alla democrazia e alla partecipazione. Sono essenziali in quanto strutture che organizzano la democrazia e la partecipazione ad essa, ma non è vero che i partiti sono solo quello che sono stati in Italia o non sono, dal punto di vista sia del rapporto con i cittadini, sia del rapporto con la società e lo Stato. È mistificatrice ogni visione che esalta la funzione dei partiti in quanto tali senza ulteriori specificazioni e che si limita a constatare che non c’è democrazia senza una pluralità dei partiti.

Decisivi sono i rapporti che i partiti hanno con i cittadini, con la società e con lo Stato, ed è necessario che si modifichi radicalmente, nel nostro Paese, il rapporto che c’è stato tra il partito e i cittadini, nel senso di dare priorità ai cittadini ed ai loro diritti, ed il rapporto tra il partito e lo Stato, nel senso di eliminare completamente ogni base di prevaricazione e di occupazione dello stato da parte dei partiti.

La democrazia alla quale si deve pensare in una società complessa e politicamente evoluta come quella italiana è una democrazia con i partiti, ma non il sistema dei partiti come lo abbiamo conosciuto.

Per questo è necessario completare la riforma del sistema politico-istituzionale, definire un nuovo sistema politico-istituzionale, del quale il finanziamento è un tassello decisivo e fondamentale.

Bisogna definire un nuovo sistema politico-istituzionale perché è entrato in crisi e non funziona più l’insieme del sistema di rappresentanza e di regolazione politica e per motivi non contingenti. E la ricostruzione di un sistema adeguato di rappresentanza non può avvenire nelle forme che lo hanno consentito in passato, non può avvenire attraverso il vecchio “sistema dei partiti”, perché sono venute meno le premesse sociali, culturali e storiche, anche internazionali, cui quel sistema ha corrisposto.

Si tratta dunque di tutt’altro che di ingegneria istituzionale: il nuovo sistema di rappresentanza deve incorporare il fattore Governo e la relativa responsabilità, e non limitarsi alla appartenenza ideologico sociale.

Per questo, per come la vedo io, la questione è ancora quella che era alla base del referendum del 1993: sono i partiti o i cittadini a scegliere il Governo e questo risponde ai partiti o ai cittadini?

È un nodo di fondo anche per quel che riguarda la discussione sulle riforme: perché dire che sono gli elettori a scegliere non mette fuori gioco i partiti, ma significa passare da una concezione di una pratica politica fondata su una dichiarazione e una scelta di appartenenza ad una concezione di una pratica politica fondata sulla responsabilità della scelta per il Governo del Paese.

Vorrei sottolineare che è questa la questione al centro del dibattito sulla riforma elettorale e delle istituzioni ed è questa la logica sottesa al provvedimento in discussione. (Applausi dal Gruppo SCpI e della senatrice Filippin).