Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali. Dichiarazione di voto.

Intervento in dichiarazione di voto. Seduta del 23 ottobre 2013

VIDEO DELLA SEDUTA

MARAN (SCpI). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Ministro, onorevoli colleghi, noi, tutti noi, non abbiamo mai pensato che basti riformare la Costituzione per risolvere i nostri gravi problemi. Trovo difficile, però, comprendere l’atteggiamento di quanti, come i colleghi del Gruppo M5S, hanno parlato di minacce autoritarie incombenti o tirano fuori la P2 tutte le volte che viene posto all’ordine del giorno il tema della riforma costituzionale in modo da dare ai Governi italiani quella stessa forza istituzionale che hanno i Governi in tutte le altre democrazie europee. Trovo riduttivo affermare che la crisi attuale riguarda unicamente la «affidabilità» della classe politica e non le regole costituzionali ed elettorali.

Alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni. Non per caso incisivi processi di riforma hanno interessato da tempo tutte le grandi democrazie europee. In Germania la Costituzione è stata modificata più di 50 volte dal 1949; l’incisiva riforma del federalismo tedesco, approvata nel 2006 e diretta ad un miglioramento della capacità decisionale della Federazione e dei Lander, ha modificato 25 articoli della legge fondamentale.

Nel 2008 la Francia ha approvato il più importante progetto di riforma della Costituzione francese del 1958, un progetto che incide in modo significativo sulla dinamica dei poteri e dei contropoteri della V Repubblica; l’ha fatto dopo che il presidente Sarkozy ha istituito un Comitato di riflessione e di proposta sulla modernizzazione ed il riequilibrio delle istituzioni della V Repubblica francese, presieduto da Balladur, le cui conclusioni sono state quasi integralmente recepite nella riforma costituzionale. Insomma, si è trattato di una commissione di esperti, come del resto hanno fatto Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Anche in Spagna è all’ordine del giorno la riforma della Costituzione (che compirà trentacinque anni a dicembre ed è la più longeva nella storia spagnola), perché il consenso territoriale si è incrinato e non si può intendere la democrazia spagnola senza il processo di decentramento politico che costituisce lo Stato autonomistico. Cito «El País»: la miglior difesa della Costituzione è la riforma della Costituzione.

Il fatto è che condividiamo gli stessi problemi: la differenza sta nella nostra inconcludenza, sta nella nostra impotenza a riformare. La differenza la fanno trent’anni di proposte non realizzate e di realizzazioni andate in una direzione sbagliata. Basterebbe ricordare la mancata abolizione delle Province. Basterebbe ricordare che la dimensione territoriale dei nostri Comuni è ancora quella del Medioevo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce.

In Danimarca hanno ridotto i comuni da 1.388 a 275, in Belgio da oltre 2.500 a meno di 600, nel Regno Unito da 1.830 autorità locali si è scesi a 486, e così in Germania. E potrei continuare. Siamo i soli in Europa ad aumentare gli organismi locali e provinciali anziché ridurli.

Trovo perciò incomprensibile il conservatorismo istituzionale che da anni paralizza qualunque tentativo di riforma. Ed è troppo facile, colleghi del Movimento 5 Stelle, ergersi a difensori ultimi delle promesse costituzionali e, nel frattempo, non fare nulla aspettando tempi migliori. E`troppo facile lanciare sospetti e denigrare, senza dire nulla su come uscire dallo stato penoso del nostro sistema politico-istituzionale.

La presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è solo la contraddizione più vistosa, che non ha eguali in altre democrazie parlamentari; un relitto di quando ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro; senza contare che la nostra Repubblica è già profondamente cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto e oggi risulta incompiuta, a metà, al punto che l’insieme di correzioni mirate alla «sgangherata» riforma del Titolo V varata nel 2001 (come l’ha definita il professor Barbera) riflette aspettative molto diffuse tra gli studiosi e di una parte significativa dell’opinione pubblica. Inoltre, è da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco, al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno a cui ruota il sistema, senza peraltro introdurre alcun serio contrappeso. Non per caso tra i saggi, sul punto, si sono manifestate sensibilità diverse e due diversi auspici: c’è chi confida che i partiti siano in grado di superare l’attuale crisi e di tornare a collegare rappresentanza e Governo in un quadro che conservi gli elementi di flessibilità della forma parlamentare; c’è chi, invece, presuppone che i problemi possano risolversi con la creazione di istituzioni ad investitura popolare diretta, anche come presupposto della rigenerazione del sistema dei partiti. Ovviamente ne discuteremo, ma sono passati vent’anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del 1993: sono i partiti o i cittadini a scegliere il Governo? E questo risponde ai partiti o ai cittadini? Questa è una domanda semplice semplice, che incontreremo di nuovo quando discuteremo della legge elettorale. Diciamoci la verità: è dal 1993 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di Provincia e (poi) di Regione, e potrei continuare. Nel 2001 i nomi di Rutelli e di Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale. Con le primarie il centrosinistra sceglie ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie il PD ha addirittura scelto il segretario nazionale e i segretari regionali.

Ora Enrico Letta propone – giustamente – l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea e, più in là, del Presidente degli Stati Uniti d’Europa. Perfino il presidente Napolitano, nella conversazione con Federico Rampini contenuta nel suo libro più recente «La via maestra», ha ipotizzato un presidente unico scelto a suffragio universale tra i candidati presentati dalle grandi famiglie dei partiti (a pagina 60).

Fatemi capire: noi possiamo scegliere direttamente il governo nei Comuni, nelle Province e nelle Regioni e vorremmo scegliere il governo dell’Europa, ma non possiamo scegliere quello nazionale. Perché? Perché c’è Berlusconi? Ma la politica non tornerà normale con l’uscita di scena di Berlusconi. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. Nel 1994 non si è prodotto un vulnus che attende di essere sanato, ma sono saltate gerarchie culturali durate mezzo secolo che non è più possibile ristabilire.

A modo suo, Berlusconi (e prima la Lega Nord) è l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso, che De Marchi ha chiamato «la rivolta dei produttori»: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori, professionisti, commercianti) contro la truffa e lo sfruttamento di una classe politico-burocratica – uso le parole di De Marchi – che, spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere e ad arricchirsi nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipiche di ogni attività di mercato. Questa sollevazione, questa rivolta antiburocratica e antistatalista, che ora la crisi ha aggravato, è il filo rosso che collega la spinta populista attuale, la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino, fatte salve le ovvie specificità, quella anticomunista all’Est.

Con questa cosa, nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. Come ha scritto malignamente Max Gallo, l’Italia è «la metafora d’Europa», ovvero la società in cui tutto si manifesta in modo caricaturale, esagerato ed eccessivo, ma non è un’anomalia. Le sue vicende – le nostre vicende – sono un capitolo della storia europea di questi anni e per rendersene conto basta dare un’occhiata a quel che succede in uno dei Paesi più civili del mondo, come l’Olanda. E chiunque voglia guidare il Paese non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che ora forse si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza nel centrodestra, facendo proprie le loro istanze, facendo proprie, cioè, quelle domande e quelle aspirazioni sul fisco, sulla giustizia e sulle libertà economiche che esse esprimono e che Berlusconi ha lasciato insoddisfatte.

Questo implica, da un lato, un’evoluzione delle culture politiche, un deciso cambio di mentalità, una svolta culturale in politica economica che favorisca la competitività, la lotta agli sprechi, la riduzione di una tassazione insopportabile; implica quella che noi di Scelta Civica abbiamo definito la riforma europea dell’Italia. E, dall’altro lato, richiede una riforma delle istituzioni che la favorisca.

Scelta Civica sosterrà questo sforzo, lo sforzo per arrivare al passo che, secondo Karl Popper, segna la modernità liberaldemocratica, ossia cambiare non la risposta, ma la domanda, e chiedersi non chi debba governare, ma come sia possibile costruire un meccanismo istituzionale che consenta di sostituire pacificamente i governanti quando li si ritenga inadatti. Insomma, un meccanismo che consenta di impedire che governanti cattivi e incompetenti facciano troppo danno.

Noi non dobbiamo temere il cambiamento. Quello che dobbiamo temere è un ennesimo fallimento. (Applausi dai Gruppi SCpI e PD. Congratulazioni).