Discussione delle mozioni nn. 8, 57, 82 (testo 2) e 107 sulla partecipazione dell’Italia al progetto dell’aereo F-35

Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 066 del 15/07/2013

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Presidente, colleghi, comprensibilmente, la gravissima crisi economica nella quale si dibatte il Paese ha dato maggior forza alle forze che chiedono una riduzione delle spese militari.

Meno comprensibile è la campagna contro la produzione e l’acquisizione dei velivoli da combattimento che, in numero drasticamente ridotto, dovranno sostituire ben tre tipi di sistemi che sono in servizio da decenni e il cui mantenimento in decorose condizioni operative sta diventando sempre più oneroso e sempre più problematico, specie se si considera che è passato soltanto un anno dal dibattito parlamentare sugli aerei militari F-35, durante il quale il Governo Monti ha comunicato la decisione di ridurre il numero dei velivoli che l’Italia intende acquistare da 131 a 90 e il Parlamento ha respinto le richieste di sospensione e di cancellazione del programma.

Una campagna difficile da comprendere, in primo luogo perché appare sotto esame uno solo dei programmi di investimento della difesa. Coerenza vorrebbe che gli ambienti antimilitaristi e pacifisti considerassero, ed eventualmente mettessero in discussione, anche altri tipi di spesa militare.

La pregiudiziale ideologica emerge chiaramente nella menzione del fatto che l’acquisizione, come scritto nel testo di una mozione, rischierebbe di compromettere le politiche di disarmo. Sarebbe interessante sapere quale programma di sviluppo militare sia compatibile con il disarmo. Se questo è l’obiettivo, bisognerebbe proporre lo smantellamento delle Forze armate e non la cancellazione di uno dei programmi di acquisizione.

Campagna difficile da comprendere, in secondo luogo, perché l’argomento finanziario si basa sull’assunto, totalmente infondato, che ci siano oggi, da qualche parte, nelle casse delle difesa 15 miliardi accantonati per gli F-35 che potrebbero essere dirottati verso programmi socialmente più desiderabili (come l’edilizia scolastica o gli asili nido) e che il mancato reperimento di risorse per la scuola e il territorio sia legato a una spesa eccessiva per l’acquisizione di materiali di difesa. Invece, tale spesa incide complessivamente per meno dello 0,5 per cento sulla spesa totale annua dello Stato. E ridurre ulteriormente un capitolo di spesa così esiguo non consentirebbe di migliorare la tenuta idrogeologica del territorio e, in cambio, avrebbe conseguenze disastrose sul dispositivo di difesa nazionale.

Va da sé che un dibattito pubblico trasparente e informato non può che migliorare la qualità delle scelte in materia di armamenti: a condizione, però, di affrontare la questione senza i pregiudizi ideologici che dominano il dibattito in corso. Se si parte dalla convinzione che il possesso di materiali di difesa sia immorale, come è stato detto, non è possibile una valutazione oggettiva della opportunità di aderire a un programma.

Il dibattito però serve, specie se considera che è in corso un attento riesame dello strumento militare nel suo complesso, finalizzato a definire le esigenze nel quadro strategico attuale e in quello ragionevolmente prevedibile, per poter disporre di quello che occorre non solo e non tanto in ambito nazionale, quanto in vista di un futuro, anche se non prossimo, processo di integrazione della difesa europea. Un riesame mirato a rimodellare le nostre Forze armate, sebbene ridotte nei numeri, in modo da avere uno strumento equilibrato in tutte le sue capacità e componenti, utilmente impiegabili a sostegno della politica estera e nazionale.

Le cose da chiarire a livello politico sono parecchie, a partire dalla definizione esatta dello strumento militare del quale il Paese si deve dotare e dei suoi obiettivi, come ha riconosciuto lo stesso ministro Mauro, anche in vista del Consiglio europeo del prossimo dicembre, che per la prima volta si riunirà anche nel formato Ministri della difesa.

Ciò comporta una valutazione della posizione e della forza della NATO, che oggi è erosa dalla lenta deriva statunitense. Comporta un giudizio circa la riluttanza dell’Unione europea ad organizzarsi credibilmente in termini di sicurezza e di difesa, aggravata dalla sempre più evidente tendenza britannica a defilarsi da ogni impegno comunitario. Comporta una valutazione della sicurezza delle fonti energetiche e del continuo palleggio di responsabilità tra NATO e Unione, il che aiuterebbe a capire che cosa ci stavano a fare due marò italiani a 20 miglia dalle coste indiane. Comporta una valutazione dei concetti su cui si impernia la cosiddetta responsabilità di proteggere. O l’abbiamo dimenticata? Dimenticarla significherebbe che noi non vogliamo la pace; vogliamo semplicemente essere lasciati in pace, che è un’altra cosa. Implicherebbe una valutazione del rapporto tra il vero significato dell’articolo 11 della nostra Costituzione e l’impiego delle Forze armate.

Come ha scritto il generale Camporini, «l’Italia certo non si prepara per attaccare nessuno, ma se si deve poter difendere e se deve, come prescrive l’articolo 11 della Costituzione» – basterebbe leggerlo per intero – «cooperare, in condizioni di parità con gli altri Stati, per assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni, deve possedere la capacità, ad esempio, di neutralizzare le batterie lanciamissili che battevano Misurata durante la recente crisi libica». È passato un anno.

L’argomento che, trattandosi di un sistema prevalentemente concepito per l’attacco al suolo, sarebbe in contraddizione addirittura con il dettato costituzionale, confondendo il livello politico‑strategico con quello meramente tattico, è inconsistente solo che si consideri anche il secondo comma dell’articolo 11.

Proprio gli avvenimenti della crisi libica dovrebbero farci riflettere: davvero i mezzi militari ad alta tecnologia sono inutili e non impiegabili? Siamo proprio sicuri che il contesto internazionale rimanga quello in cui l’unico utilizzo delle Forze armate appariva quello delle missioni di peacekeeping, senza dover ricorrere alle forme di impiego definite ad alta intensità? Siamo sicuri che questo contesto non sia destinato a cambiare e non sia già cambiato? Anche perché non possiamo illuderci che il domani sia uguale a quello che accade oggi. E in assenza di una capacità di garantire alle truppe sul terreno la copertura aerea, l’Italia si vedrebbe ridotta a fornire boots on the ground, le truppe sul terreno, da mettere a disposizione di altri, confidando sulla volontà altrui di sostenere e di proteggere le nostre unità.

Il mondo sta cambiando vorticosamente, ma un paio di cose le conosciamo. Sappiamo ad esempio che ci sono alcune costanti storiche destinate a pesare per il nostro Paese in qualunque contesto interno e internazionale. La prima ha a che fare con la vulnerabilità e l’insicurezza, a causa del debole assestamento e della continua instabilità di due versanti obbligati della politica estera italiana: la penisola balcanica e la sponda Sud del Mediterraneo. L’altra costante, che ha costituito e per molti versi continua a costituire una risposta a questa prima condizione, è l’ancoraggio alle alleanze bilaterali o a sistemi di alleanza con attori più forti, in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale e qualche volta anche interno.

Grazie a questa politica di alleanze, l’Italia ha raggiunto importanti obiettivi, a cominciare dalla stessa unità nazionale. Questa politica ha naturalmente anche dei costi. Ora le cose stanno cambiando. La crisi economica, la distribuzione del potere su scala globale, il lento spostamento del baricentro politico, strategico ed economico del sistema internazionale verso l’Asia, il numero sempre più grande di attori che hanno la tentazione di concentrare la propria attenzione sul versante interno del proprio Paese stanno determinando l’indebolimento dell’opzione multilateralista, sulla quale l’Italia ha fondato la propria politica estera all’indomani del trauma della guerra; proprio oggi che i problemi che gravano sulla sicurezza sarebbero tali da richiedere risposte concertate, risposte multilaterali. Ciò vale per la crisi del debito come per la guerra civile siriana.

Su questo converrebbe riflettere; visto il posto che l’Italia occupa nella gerarchia del potere, non ci sono alternative credibili. Anche per questo bisognerebbe cercare di limitare i danni di una campagna di disinformazione che è stata condotta in questi termini, favorendo invece una riflessione che abbia consapevolezza delle implicazioni e dei relativi costi.

I veicoli per l’attacco al suolo, di cui si è parlato, sono già serviti al nostro Paese in maniera limitata per colpire obiettivi militari durante l’intervento in Kuwait, in Kosovo, in Iraq, in Afghanistan ed in Libia, a protezione della popolazione civile, delle loro nuove forze di sicurezza e dei nostri uomini. Potrebbero un domani servire a proteggere anche la nostra comunità e un Paese che vuole avere una minima capacità di difesa non può rinunciarvi.

Più in generale, sembra esservi un’eccessiva confusione di ruoli; spetta ai tecnici indicare la strumentazione loro necessaria. Non si possono indicare ai Vigili del fuoco i mezzi di cui devono dotarsi per spegnere gli incendi e non lo si dovrebbe fare nemmeno con i militari italiani. Quello che dobbiamo dire loro è quali sono le risorse finanziarie disponibili e confrontarsi con loro sulla relativa acquisizione ed utilizzo; in questa ottica, trattandosi della nostra sicurezza, per di più riferita ad uno scenario lontano nel tempo ed imprevedibile, sarebbe molto bene essere prudenti e previdenti.
(Applausi dal Gruppo SCpI e dei senatori Alicata e Pagano).