Seduta n. 061 del 09/07/2013 – Discussione dei disegni di legge costituzionale: (813) Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali; (343) DE POLI. – Istituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali.

Riporto di seguito la bozza del resoconto stenografico del mio intervento nel corso della  discussione generale sul l’istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali.

 Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 061 del 09/07/2013
Discussione dei disegni di legge costituzionale:
(813) Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali
(343) DE POLI. – Istituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.
MARAN (SCpI). Signor Presidente, colleghi, non c’è dubbio che trent’anni di discorsi e di progetti inconcludenti abbiano reso gli appelli e le esortazioni su questi temi ripetitivi, stucchevoli e poco credibili; eppure ritengo che l’Italia non abbia in realtà un’alternativa: non può ripartire altro che dalla riscrittura della Costituzione e del sistema elettorale, capace di fondare un’autentica democrazia maggioritaria.
Resto dell’opinione che i risultati elettorali del febbraio scorso e le difficoltà incontrate all’inizio della legislatura non evidenzino una normale crisi politica, ma una più profonda crisi di sistema, che rischia di lambire gli stessi principi della rappresentanza politica. È vero che le regole del gioco non possono fornire alibi a giocatori indolenti, sui quali principalmente ricade la responsabilità della disaffezione e della protesta degli elettori, ma trovo riduttivo e, per certi versi, persino fuorviante, affermare che la crisi attuale riguardi unicamente l’affidabilità della classe politica e non le regole costituzionali ed elettorali, specie se si considera che, come sappiamo, le regole possono comunque condizionare forme e modi della politica. È appena il caso di sottolineare che un sistema di Governo debole fu voluto dalla Costituente, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri d’indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa che non ha eguali in altre democrazie parlamentari.
Dobbiamo dunque evitare di cadere nella trappola di fare del nostro attuale sistema istituzionale il parafulmine su cui scaricare tutte le responsabilità delle gravi insufficienze della politica, ma non deve sfuggirci il problema di fondo: la crisi di legittimità delle istituzioni pubbliche e del potere politico. Per parecchio tempo i partiti sono riusciti a supplire alle debolezze delle istituzioni; adesso è venuto il momento di dare vita a strutture istituzionali robuste che siano in grado di dare, esse stesse, forza ai partiti e agli altri canali di partecipazione. È venuto il momento di passare da un’invocazione astratta di riforma della politica a più puntuali riforme delle istituzioni politiche.
Anche per questo avremmo preferito – come abbiamo detto in altre occasioni – partire dalle proposte e non dalle procedure. Questo Governo è nato dalla cooperazione eccezionale; tra partiti altrimenti alternativi per compiere scelte eccezionali; dunque, avremmo preferito che subito si fosse messo all’ordine del giorno delle Commissioni affari costituzionali la proposta di riforma del Governo, seguendo le procedure dell’articolo 138 della Costituzione, specie se si considera che i cambiamenti di cui si discute, molte volte promessi e altrettante volte rinviati e contraddetti, sono stati già ampiamente dibattuti e precisati anche con proposte di legge presentate in questa e nelle scorse legislature. Non c’è pertanto niente da istruire, si tratta piuttosto di scegliere: se c’è accordo politico, non saranno poche centinaia di emendamenti a metterlo in discussione; se l’accordo politico non c’è, non sarà un Comitato parlamentare, sia pure speciale, a crearlo.
Entrando nel merito, mi soffermo solamente su un punto; il Comitato ha, come sappiamo, una funzione referente esclusiva, il che si traduce nell’assegnazione al solo Comitato di tutti i disegni di legge costituzionali o ordinari presentati dall’avvio della legislatura. Il testo, a proposito dei disegni di legge riservati all’esame referente esclusivo del Comitato, al comma 1 dell’articolo 2, recava la dicitura: «coerenti progetti di legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali»: poi, dopo l’esame della Commissione, è stato apportato un emendamento che modifica tale dicitura in: «conseguenti progetti di legge». In entrambi i casi le diciture volevano circoscrivere rispetto alla generale materia elettorale, un più ristretto novero di iniziative legislative: sia il termine «coerente» che il termine «conseguente» indicano la correlazione di una riforma della legge elettorale con la riforma costituzionale che si va ad approvare, come peraltro ha sottolineato la relatrice. Noi riteniamo però sia il caso di rimarcare e chiarire ancora una volta che, laddove questa correlazione non si ponga, la funzione referente permane alle Commissioni affari costituzionali. Nelle more della revisione costituzionale, i cui tempi, proprio ai sensi del presente disegno di legge costituzionale, sono necessariamente lunghi, bisogna consentire di poter modificare transitoriamente la vigente legge elettorale per le Camere. In fondo, non è un mistero per nessuno che una delle ragioni della crisi sta proprio nell’incapacità dei politici di assumersi le proprie responsabilità.
Vengo ad una questione più di fondo e più generale: da più parti si ritiene che nella storia dell’Italia unita sia possibile identificare una robusta linea di continuità rappresentata da un approccio ortopedico e pedagogico al problema del rapporto tra Paese legale e Paese reale. Questo approccio si fonda sulla convinzione che l’Italia sia moralmente e materialmente arretrata; che debba essere modernizzata, cioè debba essere raddrizzata e rieducata, il più in fretta possibile; che non possa essere modernizzata altro che con strumenti in senso lato politici (lo Stato, la pubblica amministrazione, la mobilitazione dei partiti e così via) e che di conseguenza sia assolutamente prioritario identificare l’élite politica giusta, provvederla degli utensili adatti, tenerla il più possibile al riparo dai condizionamenti della società.
Ovviamente, non tutta la storia d’Italia può essere ricondotta a questa linea di continuità, tanto meno possiamo dimenticare le differenze abissali che hanno separato l’una dall’altra la stagione liberale, la fascista e quella repubblicana. Tuttavia, la maniera ortopedica e pedagogica di pensare il rapporto tra Paese legale e Paese reale ha condizionato in misura notevole i nostri primi 150 anni di vita unitaria.
Storici di grande valore hanno sostenuto la necessità di questo approccio pedagogico e ortopedico adottato dalle diverse élite politiche italiane e ovviamente la storia di quella tradizione non è fatta soltanto di limiti e fallimenti. Tuttavia, i vari progetti di rieducazione del Paese il più delle volte non solo hanno mancato di raggiungere i loro scopi, ma spesso hanno finito per condurre a risultati esattamente opposti a quelli che perseguivano, confermando negli italiani la convinzione che lo Stato fosse soprattutto un nemico dal quale difendersi.
La reazione al fallimento del ceto di governo è consistita invariabilmente, in ogni periodo della storia d’Italia, nel tentativo di individuare una nuova classe politica, in generale anche questa propensa robustamente all’ortopedia e alla pedagogia, che per capacità e moralità desse garanzia di voler e poter compiere quell’opera di rieducazione e di raddrizzamento del Paese.
In questo modo, però, l’Italia ha continuato a porsi insistentemente sempre la stessa domanda, che Karl Popper considerava sbagliata: chi deve governare? Provando e scartando una risposta dopo l’altra e rispondendo immancabilmente: i migliori.
Come ricorderete la domanda corretta, secondo il filosofo austriaco, è un’altra e cioè: come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?
Ecco, il nostro Paese non è mai arrivato al passo che secondo Popper segna la modernità liberaldemocratica, ossia cambiare non risposta, ma domanda e chiedersi non chi debba governare, ma come sia possibile costruire un meccanismo istituzionale che consenta di sostituire pacificamente i governanti quando li si ritenga inadatti, cosa che nel nostro Paese è avvenuta sempre con molta fatica.
L’insensibilità nei confronti delle istituzioni rappresenta un elemento caratteristico della vicenda italiana, tanto quanto lo è l’enfasi sul rinnovamento della classe politica. Quel che conta è sempre chi detenga il potere, identificare una élite virtuosa che possa affrontare e risolvere rapidamente, radicalmente e magicamente i problemi italiani. Quel che conta è il più delle volte, ancor di più, identificare chi debba essere escluso dal potere. Quel che conta non è mai come sia organizzato, disciplinato e limitato il potere.
Ebbene, la riforma costituzionale resta l’unica via possibile perché si creino le condizioni per un’opera di governo davvero più coerente, rapida ed efficiente, specie se si considera che agiamo all’interno di istituzioni politiche nelle quali, per le ragioni storiche accennate, il momento dei contrappesi e delle garanzie è largamente sovradimensionato rispetto a quello della decisione.
PRESIDENTE. La invito a concludere, senatore Maran.
MARAN (SCpI). Concludo, signor Presidente.
Dunque la vera frattura con la nostra vicenda nazionale sarà quella di enfatizzare il ruolo delle istituzioni e della possibilità che le élite circolino secondo la volontà degli elettori.
Dobbiamo darci, signor Presidente, istituzioni coerenti e ben funzionanti che consentano la sostituzione pacifica delle élites, smettendo di pensare che queste élite possano rendere l’Italia magicamente diversa da quella che è. (Applausi dai Gruppi SCpI e PD).