Discussione delle mozioni nn. 31 (testo 3), 44, 46, 47 e 48 relative all’avvio del percorso delle riforme costituzionali

Resoconto stenografico della seduta n. 030 del 29/05/2013

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Maran. Ne ha facoltà.

MARAN (SCpI). Signor Presidente, signor Ministro, l’attuale Governo – che, ricordo, è un Governo di servizio e di emergenza – ha fatto bene a vincolare la propria durata ad un percorso efficace e tempestivo di riordino istituzionale. È importante che, superata questa fase, inizi un percorso nuovo con elezioni realmente decisive per decidere chi governa, in grado di realizzare il programma di legislatura sottoposto agli elettori in un quadro aggiornato ed equilibrato che comprenda nuove garanzie e contropoteri. E ciò non potrebbe accadere solo con una riforma elettorale.

A vent’anni da Tangentopoli il nostro Paese ha bisogno di qualcosa che solo i due partiti maggiori – duellanti di questi vent’anni – possono fare: la riforma dell’assetto istituzionale, la riforma cioè di una democrazia parlamentare che non funziona più. È questo il programma di moralizzazione della vita pubblica di cui c’è più bisogno: dal superamento del bicameralismo perfetto all’abolizione delle Province.

La crisi istituzionale – con la crisi fiscale e la crisi morale – costituisce il terzo pezzo che va ad ingrossare la «grande slavina» descritta da Luciano Cafagna nel celebre saggio ristampato nel ventennale di Tangentopoli. La crisi istituzionale – uso le parole di Cafagna – è l’incapacità dei partiti di rimediare al peccato originale dei Padri costituenti, l’insoddisfacente assetto costituzionale della forma di governo, quella partitocrazia assembleare che è all’origine della coabitazione generale e dello smembramento della sovranità, e dunque della cedevolezza dei Governi di fronte a domande sociali che in altri Paesi venivano controllate e indirizzate in modo più efficace.

Noi siamo ancora lì, e senza una solida riforma delle regole del gioco il sistema continuerà a galleggiare in una interminabile e penosa transizione che con il passare del tempo si incancrenisce.

Certo che la priorità è la crescita! Certo che bisogna riportare in Italia una dinamica economica e sociale positiva! E non c’è dubbio che sono necessarie politiche del lavoro e dello sviluppo e che ci si debba occupare della giustizia, dell’istruzione, delle liberalizzazioni. Ma queste fondamentali politiche avranno difficoltà ad essere approvate ed attuate, perfino discusse, non appena entreranno nel micidiale circuito attuale Governo e Parlamento e nel mirino di partiti e partitini.

In questi mesi, in cui il dibattito verte principalmente sui costi della politica, non sarebbe male chiedersi: perché i partiti non hanno appoggiato le riforme proposte su questo tema dal Governo Monti? Come mai non è passata neppure la riduzione delle Province?

L’Italia è al bivio. Per come la vedo io, deve decidere se deve andare ad Atene o a Parigi. Dobbiamo cioè decidere se vogliamo conservare un sistema pachidermico, che sacrifica la governabilità e genera instabilità ed esecutivi fragili che non hanno portato a termine né il programma di Governo, né le riforme di cui l’Europa chiede conto (ed è questo il quadro che ci associa alla Grecia, la cui legge elettorale ha prodotto quattro tornate elettorali con altrettanti Governi instabili in soli otto anni), o se invece vogliamo cambiare, finalmente, le regole del gioco.

Nutro una personalissima, ma convinta preferenza per il semipresidenzialismo francese, perché le sue regole e le sue istituzioni contribuiscono in maniera molto significativa alla ristrutturazione dei partiti e delle loro modalità di competizione, contribuiscono all’eventuale formazione delle coalizioni di Governo e a dare potere ai cittadini-elettori. In Francia la ristrutturazione dei partiti ha avuto come principale volano la competizione per la Presidenza della Repubblica, e i partiti sono sopravvissuti.

Ricordo però che dal crollo della Prima Repubblica consentire ai cittadini di scegliere con il voto un leader e una maggioranza è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali, dai referendum del 1991 e del 1993 all’elezione diretta del sindaco, la prima e, finora, la più felice delle riforme che risale al 1993. Comunque la si pensi, tuttavia, Senato federale, parlamentarismo limitato o semipresidenzialismo alla francese con doppio turno di collegio per la Camera e Statuto delle opposizioni sono stati già ampiamente dibattuti e precisati, anche con progetti di legge presentati in questa e nelle scorse legislature.

Per questa ragione ormai si tratta soltanto di scegliere. E per questa ragione riteniamo positivo che si sia abbandonato lo strumento della Convenzione, pensato prima, peraltro, dell’attuale maggioranza di Governo che è composta dalle forze che, forse, più credibilmente possono condividere questo impianto complessivo, senza ovviamente escludere ulteriori contributi.

La Convenzione non era uno strumento efficace: avrebbe comportato un allungamento dei tempi e non avrebbe portato con sé una responsabilizzazione delle forza politiche di maggioranza.

Per quanto poi sia auspicabile il coinvolgimento di esperti, che comunque può esserci, è evidente a tutti che i principali nodi tecnici sono noti da tempo, anche grazie al lavoro recente dei cosiddetti saggi, e che i nodi da sciogliere sono legati all’esercizio della responsabilità politica, anche perché bisogna superare i più vari conservatorismi.

Noi avremmo voluto, avremmo preferito che entro la pausa estiva le Camere procedessero alla prima lettura della riforma, cosa possibile ed auspicabile, seguendo la procedura di quell’articolo 138 della Costituzione che non impedisce né interventi rapidi, né interventi incisivi sulla Parte II della Costituzione. Nell’intervallo tra la prima approvazione e quella definitiva le Camere avrebbero poi potuto iniziare già a predisporre la legge elettorale coerente con la riforma costituzionale.

Il Gruppo di Scelta Civica sostiene con convinzione lo sforzo di riforma, ma non vorremmo che la strada prescelta finisse per portarci fuori strada: finisse cioè per appesantire il percorso anziché renderlo più spedito, tradendo esitazioni e riserve circa gli esiti del processo. Non vorremmo che il percorso finisse per assomigliare pericolosamente ad una tattica per tirare a campare.

Attenti, questo è un monito che vorremmo rivolgere a tutti: la scommessa a cui i partiti di maggioranza hanno accettato di sottoporsi è proprio quella di allontanare il sospetto che non ci sia più niente che si possa fare per salvare quel che resta del sistema. Non possiamo fallire anche questa volta, e per farcela davvero c’è una condizione: che il Governo non assuma come obiettivo soltanto quello di durare nel tempo, magari coltivando l’ammonimento del conte zio («troncare e sopire»), perché è il caso di sottolineare che il Governo è nato dalla cooperazione eccezionale tra partiti altrimenti alternativi per compiere scelte eccezionali.

Per questo (è la mia personalissima opinione) avrei voluto che subito si fosse messo all’ordine del giorno delle Commissioni affari costituzionali un disegno di riforma costituzionale proposto dal Governo seguendo la procedura dell’articolo 138.

Se c’è accordo politico, non saranno qualche centinaia di emendamenti ad impedire la riforma. Se l’accordo politico non c’è, non sarà una Commissione speciale a crearlo. Il problema è di merito: di quali riforme istituzionali ha bisogno il Paese. Votare di nuovo senza cambiare la legge elettorale del Senato equivale a puntare sulla roulette: la pallina potrebbe finire nella casella giusta oppure no, ma le probabilità di un esito negativo sono molto più alte di quelle di un esito positivo.

E allora, cosa facciamo? Continuiamo a votare finché la fortuna non ci arride? La strada maestra per la governabilità è un’altra: per porre le basi di una vera governabilità, occorre fare delle scelte chiare sul sistema di voto, sulla forma di governo e sul bicameralismo. Sono cose dette e ridette: ora dobbiamo scegliere. E sono decisioni che non possono più essere rinviate.

La stabilità e la funzionalità della nostra democrazia dipendono da quello che i partiti sapranno fare in tema di riforma delle istituzioni e della politica. Il successo delle forze che si sono ispirate alla rivoluzione populista è anche l’effetto della inconcludenza della politica italiana degli ultimi anni e tornare al voto senza aver fatto nulla non sarebbe che la conferma di quella inconcludenza.

Colleghi, dopo un lungo e frustrante tira e molla, siamo tornati alla grande coalizione necessaria dal novembre 2011, al necessario predominio delle politiche sulla politica, ma a vent’anni di distanza da Tangentopoli, dalla crisi che ha distrutto la Prima Repubblica, la situazione economica e sociale è ancora più grave di quella dei primi anni Novanta, perché le riforme sono state differite per troppo tempo, il Paese è più povero e i condizionamenti internazionali sono più forti.

In molti non sono completamente consapevoli di questa condizione e forse Scelta Civica è uscita ridimensionata dalle elezioni rispetto alle aspettative, ma di sicuro non l’esigenza di porre l’agenda Monti, cioè il programma di riforme necessarie per la prima integrazione dell’Italia nella nuova Europa, al centro della legislatura, perché noi dobbiamo curare l’economia non con i cerotti, ma con riforme in grado di riassorbire il deficit di competitività.

L’Italia non cresce perché la produttività totale dei fattori è stagnante. Rimettere il Paese nelle condizioni di produrre ricchezza: è questo il nostro vero problema, e per questo dobbiamo offrire un cambiamento sia nelle politiche sia nel modo di fare politica.

Scelta Civica sosterrà questo sforzo, anche perché non va dimenticato che il vuoto di potere viene sempre colmato e una democrazia impotente lascia sempre un vuoto di potere, soprattutto nei periodi di crisi. Spetta a noi decidere se vogliamo che lo colmi un’autorità legittima e democratica o un’autorità e basta. (Applausi dai Gruppi SCpI e PD).